Saturday, May 19, 2007

DIKTAT DI COBOLLI: VIETATO PARLARE A MOGGI

LUCIANO MOGGI
Da Libero di venerdì 18 Maggio 2007

Il diktat di Cobolli: vietato parlare a Moggi. Fossero questi i problemi della Juventus...
Caro direttore, siamo al ridicolo: l'ennesima diatriba tra vecchia e nuova dirigenza mi fa pensare, se, per caso, non siamo tornati ai tempi delle scuole elementari, quando, per ogni minima questione, si andava a frignare dalla maestra. Ricordo che all'epoca si mettevano gli alunni cattivi dietro la lavagna, mentre per i più zucconi, c'era l'onta del cappello con le orecchie da somaro. Non appena scoperta l'esistenza di una tua telefonata con Secco sono fiorite infinità di insinuazioni: l'ombra di Moggi dietro la nuova Juve, Moggi consiglia Secco per il mercato. Non ci dobbiamo stupire più di niente, in un mondo che non conosce il buon senso, dove i processi si fanno sui giornali e dove, lo scopro oggi, è diventato reato ricevere o fare una telefonata a Moggi. Basta questo per scatenare i pruriti dei perditempo alla ricerca di facili scoop. C'è veramente di che demoralizzarsi pensando al ridicolo teatrino in cui si è trasformato il calcio italiano e non per colpa della Juve e della sua passata dirigenza. Anzi, l'impressione sempre più netta, è che in quel (questo) calcio di vasi di ferro Luciano Moggi fosse l'unico vaso di coccio. Il presidente Cobolli Gigli invece di indirizzare pensieri e energie a qualcosa di utile per la costruzione della nuova Juve riprende un'onesta dichiarazione di Alessio Secco e la censura: tutto questo perchè il ds si è permesso di nominare lei, sig. Moggi, a proposito di una (tra le tante), telefonate di solidarietà ricevute. Non capisco come si possa perdere tempo per simili sciocchezze. Mi viene in mente un pezzo di Mario Sconcerti che indicava in Cobolli Gigli una «figura quasi risorgimentale» e nella nuova Juve «una società piena di vecchi gentiluomini di campagna, di inquietitudini più che di sicurezze». L'intento di Sconcerti era lodevole, ma dove andremo a finire con i vecchi gentiluomini e le figure risorgimentali? Ebbe inoltre a dire Boniperti in assemblea: «Ho conosciuto queste persone e ve le raccomando. Sono persone per bene, l'unico difetto che hanno è che fino a quando non sono state chiamate a questo incarico, non sapevano niente di pallone». Se fino a ieri l'altro non sapevano niente di calcio - mi son detto e con me tutti gli altri tifosi juventini - come verrà condotta la società nei quotidiani problemi del calcio? Ho l'impressione che se stiamo tornando in A dipende dalla squadra lasciata in eredità dai vecchi reggitori. A proposito di quel rimbrotto fatto a Secco il nostro presidente ha detto che: «La Juve del presente non ha rapporti con quella del passato». Presidente: il passato - leggi Bettega - è lì con voi. Questo non deve essere considerato uno scandalo, così come non dovrebbe essere uno scandalo citare Moggi come ha fatto Secco. Di cosa ha paura la Juventus? Un tempo facevamo tremare tutti, ora ci nascondiamo perché un dirigente ha fatto il nome di un presunto "innominabile". Certe cose avvenivano ai tempi dell'ostracismo nell'antica Grecia. Grazie per lo spazio che vorrà dare a questa mia ed un grande in bocca al lupo per il futuro. ALFONSO
Mi sono imposto che non sarei mai entrato in polemica con la nuova dirigenza bianconera e non lo farò neanche in questa occasione. Credo che la nuova Juve di tutto abbia bisogno fuorché di polemiche stucchevoli ed inutili. Come dice lei la dichiarazione di Secco era onesta e lineare. A giudicare dalla reazione dovrei definirla anche coraggiosa. Non credo sia un delitto fare o ricevere una telefonata (una) di solidarietà a/da persone ancora in orbita Juve. Penso, invece, che sia una prova di attaccamento ai colori da tenere in ben altra considerazione. All'occorrenza (e questo è un motivo di soddisfazione personale per quello che ho fatto in passato), tante persone, anche dell'attuale staff, hanno manifestato al sottoscritto piena solidarietà a cominciare dal capo del settore giovanile, Ciro Ferrara (e non solo), al quale abbiamo lasciato in dote giovani che potranno sicuramente dare lustro alla Juve del futuro.
Identità nazionale dei club: la crociata (sbagliata) di re Blatter
Le squadre multinazionali cui siamo abituati hanno i giorni contati. Milan, Real, inter, Manchester, Arsenal, Chelsea, Barcellona e tanti altri club, anche meno ricchi, dovranno ricostruire l'ossatura della squadra su giocatori nazionali. In futuro l'utilizzo dei fuoriclasse mondiali sarà limitato a 5 giocatori su 11. Sta per essere introdotta la regola che impone, secondo le anticipazioni oggi disponibili, ad ogni squadra di schierare almeno 6 giocatori nazionali. Fifa, Uefa, varie federazioni nazionali nonché i sindacati dei calciatori, col fedele sostegno della stampa sportiva, stanno riuscendo a far passare questa come una riforma largamente condivisa. Dai palazzi del governo dello sport nazionale e internazionale ci viene spiegato, che il proliferare degli stranieri nei nostri campionati ed il loro preponderante numero in molte blasonate formazioni, è uno dei mali peggiori del calcio d'oggi. Ecco quindi il salvifico progetto dell'Uefa, atto ad introdurre quote di giocatori "nazionali" nelle rose delle squadre di club.

CHE ERRORE LA REGOLA DEL "6+5"
Il sentimento alla base di questa xenofobia calcistica è ben riassunto dal commento che fece circa un anno fa Gordon Taylor, capo del sindacato inglese dei calciatori dopo una vittoria dell'Arsenal contro il Real in Champions: «Il successo dell'Arsenal ha una connotazione amara, perché è il successo di un club inglese, ma non del calcio inglese. Di quello francese, forse. Se dovessimo andar male ai Mondiali magari ci sarà più interesse ad intervenire per modificare lo stato di cose attuale». Il presidente della Fifa, Josef Blatter, ha riassunto per parte sua la missione della federcalcio mondiale con questo slogan: «Ridiamo identità nazionale ai club!». Il 2 novembre 2006 Fifa e Fifpro (il sedicente rappresentante internazionale dei calciatori professionisti) hanno sottoscritto una lettera di intenti per sostenere l'introduzione della regola del 6+5, ossia appunto l'imposizione ad ogni squadra di almeno 6 giocatori nazionali. Il Basket ne è stato illuminato anticipatore: ogni squadra di A deve iscrivere almeno 6 giocatori italiani a referto. E se questo irrefrenabile impeto nazionalista ed autarchico fosse semplicemente antistorico e retrogrado? Se fosse la risposta ad un (falso) problema che in verità riguarda pochi intimi, sodali frequentatori delle associazioni di categoria, delle sale consiliari dei comitati olimpici, dei gabinetti ministeriali? Non ci giunge l'eco ribelle della piazza, non percepiamo i mugugni dei tifosi, non sentiamo il disagio del "calcio di base", per la presenza di troppi giocatori stranieri nel nostro campionato. Eppure nessun dubbio sembra sfiorare i soloni del calcio. Indifferenti all'illiceità delle discriminazioni e delle barriere alla libera circolazione dei lavoratori nell'Ue, persino i sindacati portano avanti il loro progetto di purificazione delle razze calcistiche. Ebbene, qui osiamo mettere in dubbio queste certezze. Proviamo a negare l'idea che alzare barriere sia cosa buona e giusta. A costo di apparire più realisti del re, cerchiamo di dare voce alla maggioranza silenziosa che non si sente per nulla angustiata dal mix di fantasia brasiliana e talento argentino che spesso fa le fortune del club del cuore. Non siamo affatto sicuri che sia giusto, utile e prioritario "ridare identità nazionale ai club". Certo, lo sport è anche un tratto espressivo di caratteri, scuole e culture nazionali. È l'affascinante, catartico teatro di rivalità storiche. Ma chi ha mai dimostrato che il calcio delle rappresentative nazionali sia minato dall'internazionalità dei campionati per club, o che la possibilità d'identificazione nelle gesta di un grande atleta nazionale sia compromessa dalla presenza di praticanti stranieri della disciplina in questione? Uno dei cavalli di battaglia degli xenofobi sportivi è la tutela dei vivai nazionali. Concetto ripetuto alla noia, che però non abbiamo mai visto avvalorare da credibili rilievi statistici. Gli stranieri fanno male al calcio dei settori giovanili, si dice. Ma quanti giovani italiani hanno beneficiato del maggiore livello tecnico, cui non poco hanno contribuito i giocatori stranieri? I nostri massimi tornei di rugby, pallavolo, pallacanestro e calcio sono tra i più competitivi perché vi partecipano i migliori giocatori, non solo i migliori italiani. Inoltre, dato che lo scopo dello sport non è il professionismo (e secondo De Coubertain neppure la conquista degli allori), ci si dovrebbe dolere se, per la presenza di troppi stranieri, vi fosse un calo della pratica sportiva di base, ciò che invece non risulta. Passiamo dunque alle motivazioni protezionistiche e sindacali. Ci chiediamo, sperando di non scandalizzare nessuno, se sia giusto e condivisibile precludere l'ingresso a calciatori più meritevoli per preservare il posto ai nostri connazionali. Si tratta evidentemente di garantire il contratto di lavoro ad un certo numero di giovanotti italiani che vogliono fare i calciatori, anche se il mercato (internazionale) ne offrirebbe di migliori. Ma, si chiedono i difensori dell'italianità del campionato, sono sempre davvero migliori gli stranieri che arrivano in Italia? All'obiezione si può semplicemente rispondere, che non esiste metodo migliore per stabilire il merito che lasciare la libertà di scelta agli interessati. Certo i club possono sbagliare, ma tale possibilità non giustifica l'imposizione di sei calciatori nazionali in ogni squadra. E se gli sbagli sono, come spesso si sente dire, frutto di squallidi interessi di operatori disonesti, sarebbe bene dimostrare che in un mercato esclusivamente nazionale le pastette tra procuratori, allenatori e presidenti non esisterebbero o sarebbero inferiori. Chiunque abbia memoria dei bei tempi passati e un minimo di discernimento sa bene che la tesi non regge. In verità l'unico effetto certo delle barriere all'ingresso degli stranieri è la lievitazione dei costi dei calciatori italiani. È infatti evidente che, salvo distorsioni occasionali, i club girano il mondo alla ricerca di talenti perché in tal modo, pescando in un mare più grande, riescono a scoprire e ad ottenere buoni giocatori a costi più competitivi. Cosa non possibile se fossero costretti ad accapigliarsi nel solo mercato nazionale, dove ogni giovane emergente diventa, e diventerà ancor di più con le nuove regole, una piccola star, contesa e corteggiata da tutti i club (con esiti scontati a favore delle società più ricche). Così i migliori alleati del sindacato italiano, in questa difesa del territorio dai barbari invasori, finiscono per essere le poche società che, guardando al vantaggio immediato e trascurando il costo di lungo termine prodotto da un mercato non competitivo, intravedono la possibilità di supervalutare qualche loro buon giocatore nazionale. Altre nel frattempo si arrangiano con mirabolanti ricostruzioni genealogiche, scovando in qualche registro parrocchiale gli antenati italiani dei loro calciatori sudamericani.

AI TIFOSI INTERESSANO LE VITTORIE
Non è tutto. A parte l'evidente ricaduta anticoncorrenziale della politica autarchica promossa in varia misura dai sindacati e dai vertici dello sport, ciò che fa più dispiacere, a chiunque creda nei principi dell'integrazione europea, è l'involuzione nazionalistica della quale lo sport sembra farsi promotore. Sono anni che le istituzioni sportive del nostro Paese, e di altri importanti Paesi europei conducono una battaglia instancabile contro l'applicazione dei principi dell'integrazione economica e sociale allo sport professionistico. Noi facciamo il tifo per le istituzioni e i Paesi che fino ad oggi hanno difeso le libertà civili ed economiche anche nel settore dello sport. Certamente ogni cittadino europeo è accanito sostenitore della propria nazionale, ma quando si tratta del calcio di club non esiste alcuna preoccupazione circa il passaporto dei propri beniamini. Non serve alcun sondaggio per rendersi contro che, per quanto concerne la costruzione della squadra, il tifoso ambisce ai migliori giocatori possibili, e non riduce le proprie attese per la soddisfazione di veder giocare un connazionale con la maglia della squadra del cuore. Per il tifoso conta che la propria squadra vinca, giochi bene e competa al più alto livello possibile. Può piacere o no, ma è un segno dei tempi: ci si riconosce nei colori, nello stile della Società, qualche volta in giocatori che ne incarnano lo spirito, mai nella nazionalità dei singoli professionisti, pagati per vincere. «L'idea della Fifa - dice Blatter - è di avere almeno in ogni partita 6 giocatori della nazione in cui si gioca». Noi speriamo che l'idea non si realizzi mai. Qualunque sia il principio ispiratore di questa crociata, non si tratta certo di una richiesta del pubblico. Forse i reggitori del calcio dovrebbero prestare maggiore attenzione ai tifosi: sono loro i clienti del business che arricchisce la piramide del football.
AVV. LUCA FERRARI

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