EDITORIALE
GIANCARLO PADOVAN
Da Tuttosport di giovedì 3 Maggio 2007
Quando si vincono partite come ha vinto il Milan ieri sera, disintegrando in semifinale il Manchester United, ovvero i prossimi campioni d’Inghilterra, attaccando e difendendo con lo stesso lucido furore, senza pause e senza esitazioni per 93 minuti, segnando tre gol e mancandone almeno un paio, c’è una sola cosa che gli uomini di sport devono fare: alzarsi e applaudire. Perché in finale, il 23 maggio, vanno i migliori. E il Milan non è stato solo meglio dello United dentro San Siro ebbro di gioia. Lo era già stato a Manchester perdendo una partita che, come minimo, sarebbe stata pareggiata senza l’errore pedestre di Brocchi.
Ma perché ricordarlo adesso, appena fuori dalla notte che consegna ai rossoneri l’avversario tanto atteso e detestato, quel Liverpool sparagnino e fortunato diventato campione due stagioni fa grazie ad una serie di circostanze oggettivamente irripetibili? Secondo me, non solo è l’antagonista che il Milan poteva augurarsi per la finale, è anche quello che, consciamente o meno, gli uomini che dall’incubo di Istanbul sembrarono non tornare più, desideravano assolutamente. Sono certo che lo stesso Ancelotti non pensasse ad altro che al Liverpool e che ci abbia pensato molto prima di ieri sera. A nessuno, infatti, può sfuggire quanto il Liverpool fosse, delle quattro semifinaliste, la meno brillante, la meno ficcante, la meno tecnica. Non sto dicendo che ad Atene arriva una squadra di assoluta insignificanza. Mi limito a ricordare che per riuscirci le sono comunque serviti i calci di rigore (come per battere il Milan in finale dopo averlo prodigiosamente rimontato), che nella Premiership è da anni ridimensionata e ridotta al ruolo di comprimaria, che in Coppa d’Inghilterra è uscita senza lasciare tracce e rimpianti. Può darsi che Benitez sia un allenatore abile e capace di vincere soprattutto le Coppe (l’anno scorso conquistò la FA Cup di nuovo dal dischetto). Di certo, due finali di Champions non sono un caso. Tuttavia non possono essere un caso nemmeno le tre di Ancelotti. Curiosamente la vittoria dell’uno (Benitez), al pari di vittoria e sconfitta dell’altro (Ancelotti), sono arrivate sempre dagli undici metri.
Ad Ancelotti e alle sue scelte convincenti va ascritto il merito non solo della finale, ma anche della difficile conduzione di una squadra sfiduciata, in campionato, dalla penalizzazione per lo scandalo e della problematica gestione dei rapporti interni ed esterni a proposito del suo personale futuro. Il Milan, almeno per me, è da tempo alla fine del suo ciclo vincente (non a caso scudetto e coppe mancano dal 2004), eppure Ancelotti e il suo staff lo hanno saputo prolungare oltre ogni legittima previsione.
Con l’allenatore e con Adriano Galliani non sarò mai d’accordo sulla legittimità della partecipazione alla Champions di quest’anno. Per me, e non solo per me, si è trattato di una decisione politica in spregio ad ogni logica. Rivendico, dunque, anche nell’attimo supremo della doverosa e entusiastica lode ai vincitori, il diritto di dissentire; rivendico una quantità di buone ragioni per farlo e rivendico il bisogno di continuare a battere questa strada, dalla quale – caro Carlo – non sono mai uscito. Tutto questo, però, non toglie una goccia di grandezza all’impresa del Milan. Lassù è arrivato da solo. Lo ha detto il campo. E quando il campo parla così chiaramente nessuno può contraddire.
GIANCARLO PADOVAN
Da Tuttosport di giovedì 3 Maggio 2007
Quando si vincono partite come ha vinto il Milan ieri sera, disintegrando in semifinale il Manchester United, ovvero i prossimi campioni d’Inghilterra, attaccando e difendendo con lo stesso lucido furore, senza pause e senza esitazioni per 93 minuti, segnando tre gol e mancandone almeno un paio, c’è una sola cosa che gli uomini di sport devono fare: alzarsi e applaudire. Perché in finale, il 23 maggio, vanno i migliori. E il Milan non è stato solo meglio dello United dentro San Siro ebbro di gioia. Lo era già stato a Manchester perdendo una partita che, come minimo, sarebbe stata pareggiata senza l’errore pedestre di Brocchi.
Ma perché ricordarlo adesso, appena fuori dalla notte che consegna ai rossoneri l’avversario tanto atteso e detestato, quel Liverpool sparagnino e fortunato diventato campione due stagioni fa grazie ad una serie di circostanze oggettivamente irripetibili? Secondo me, non solo è l’antagonista che il Milan poteva augurarsi per la finale, è anche quello che, consciamente o meno, gli uomini che dall’incubo di Istanbul sembrarono non tornare più, desideravano assolutamente. Sono certo che lo stesso Ancelotti non pensasse ad altro che al Liverpool e che ci abbia pensato molto prima di ieri sera. A nessuno, infatti, può sfuggire quanto il Liverpool fosse, delle quattro semifinaliste, la meno brillante, la meno ficcante, la meno tecnica. Non sto dicendo che ad Atene arriva una squadra di assoluta insignificanza. Mi limito a ricordare che per riuscirci le sono comunque serviti i calci di rigore (come per battere il Milan in finale dopo averlo prodigiosamente rimontato), che nella Premiership è da anni ridimensionata e ridotta al ruolo di comprimaria, che in Coppa d’Inghilterra è uscita senza lasciare tracce e rimpianti. Può darsi che Benitez sia un allenatore abile e capace di vincere soprattutto le Coppe (l’anno scorso conquistò la FA Cup di nuovo dal dischetto). Di certo, due finali di Champions non sono un caso. Tuttavia non possono essere un caso nemmeno le tre di Ancelotti. Curiosamente la vittoria dell’uno (Benitez), al pari di vittoria e sconfitta dell’altro (Ancelotti), sono arrivate sempre dagli undici metri.
Ad Ancelotti e alle sue scelte convincenti va ascritto il merito non solo della finale, ma anche della difficile conduzione di una squadra sfiduciata, in campionato, dalla penalizzazione per lo scandalo e della problematica gestione dei rapporti interni ed esterni a proposito del suo personale futuro. Il Milan, almeno per me, è da tempo alla fine del suo ciclo vincente (non a caso scudetto e coppe mancano dal 2004), eppure Ancelotti e il suo staff lo hanno saputo prolungare oltre ogni legittima previsione.
Con l’allenatore e con Adriano Galliani non sarò mai d’accordo sulla legittimità della partecipazione alla Champions di quest’anno. Per me, e non solo per me, si è trattato di una decisione politica in spregio ad ogni logica. Rivendico, dunque, anche nell’attimo supremo della doverosa e entusiastica lode ai vincitori, il diritto di dissentire; rivendico una quantità di buone ragioni per farlo e rivendico il bisogno di continuare a battere questa strada, dalla quale – caro Carlo – non sono mai uscito. Tutto questo, però, non toglie una goccia di grandezza all’impresa del Milan. Lassù è arrivato da solo. Lo ha detto il campo. E quando il campo parla così chiaramente nessuno può contraddire.
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