Monday, April 30, 2007

LA ROSEA MI ATTACCA... SAI LA NOVITA'

LUCIANO MOGGI
Da Libero di domenica 29 Aprile 2007

Se qualcuno disgraziatamente si fosse scordato il cosiddetto "scandalo del calcio" ci ha pensato la Gazzetta - alla sua maniera - a rilanciare il sasso a un anno - questo il pretesto dalla sua "esplosione". Richiamo in prima pagina, due pagine all'interno, l'editoriale dell'esperto di Palazzo (lo stesso che diede per certa l'assegnazione degli europei 2012 all'Italia...) il tutto in perfetto Rosea-Style: quando vogliono distruggere qualcuno ce la mettono tutta per raggiungere l'obiettivo. Conosco il gioco e non mi meraviglio, ma penso anche che a tutto dovrebbe esserci un limite. Invito i lettori a leggersi il suddetto editoriale con animo sereno per notare l'acredine, il malanimo, quasi il livore con cui vengono espressi certi concetti. La tecnica è la solita: si cerca di anticipare il processo in chiave mediatica (anzi non il processo, ma addirittura le condanne!), in spregio di un caposaldo fondamentale della civiltà giuridica di ogni Paese, quello della "presunzione d'innocenza", sovrastata nel caso da una affermata (?) "presunzione di colpevolezza". Qualcuno di questi signori vorrebbe tornare ai tempi della gogna in piazza e per il momento si accontentano di crearne i presupposti. La chiave di lettura di questa escalation-bis della Gazzetta mi è arrivata dalla lettura di qualche titolo... per così dire tronfio. Non molto tempo fa il direttore Verdelli provò a spiegare il perché dell'utilizzo del termine "Moggiopoli"; a me, e anche ai più, sembrò un modo per scusarsi a denti stretti, più che per chiarire. Ma dopo la chiusura dell'inchiesta di Napoli il quotidiano milanese ha ritenuto di aver trovato nei capi d'accusa la conferma della validità di quell'appellativo. Nessun pensiero al fatto che poi ci dovrà essere comunque un dibattimento, un processo, e che gli imputati avranno diritto e possibilità di difendersi. La cosa però non interessa a quelli della Gazzetta e soprattutto a quelli che non avevano approvato (ma questo non lo dirà nessuno) la sopracitata chiarificazione del direttore. E così è partita la fase due del processo mediatico. Notate il titolo dell'editoriale: "Moggiopoli: ma non era una bufala?". La questione è tutta lì. Ed infatti l'articolista a conclusione di vari arzigogoli conclude che «sì, "Moggiopoli" è il nome giusto». Tutto questo chiasso per rivendicare così poco. E figuriamoci se qualcuno si preoccupa del danno procurato alla mia persona prima ancora dell'inizio del processo: chi ritiene di poter giudicare tutto e tutti, chi decide le condanne prima che le stesse vengano emesse, non ha dubbi ma solo certezze. La tecnica distruttiva ha anche un'altra faccia, quella della rimozione e cancellazione di tutto ciò che, anche solo in teoria, può entrare in conflitto con il teorema accusatorio (come lo chiama sempre lui - l'esperto del Palazzo). Un esempio? Giovedì Sky News 24 ha mandato in onda un'intervista ad un tecnico esperto di telefonini che dimostrava come si possa chiamare un numero facendo risultare che la chiamata è stata effettuata dal telefono di una terza persona. Un fatto che sia pure solo per completezza di informazione avrebbe dovuto trovare spazio nelle colonne del giornale che a quella vicenda dedica tanto spazio. Invece neppure un rigo, niente di niente.

Sono innocente e riuscirò a dimostrarlo
Voglio dirlo chiaramente: ho piena fiducia nella giustizia. Rispetto i magistrati di Napoli, il loro lavoro, l'impegno che hanno profuso. Allo stesso modo sono certo di poter dimostrare la mia innocenza... Se la Gazzetta mi darà il tempo e l'opportunità di farlo. Le campagne mediatiche - e questa è certamente una di quelle - annientano la resistenza psicofisica di chi vi è coinvolto, costringono gli imputati all'angolo, i princìpi più elementari di civiltà giuridica vengono calpestati e difendersi diventa complicato. Ma credete che tutto questo interessi a quelli della Gazzetta? Figuriamoci. Di più: sembra che questo sia proprio l'obiettivo che vogliono raggiungere. Pazzesco.

Thursday, April 26, 2007

AVVISO A SUPERGIGI E AI SUOI SPASIMANTI

IL PUNTO
VITTORIO OREGGIA
Da Tuttosport di giovedì 26 Aprile 2007

Se quella di Alessio Secco può essere legit­timamente considerata una battuta in per­fetto stile moggiano, perché ottanta milioni di euro per Gianluigi Buffon non li spendono né Massimo Moratti in stato di euforia totale nè Roman Abramovich in un rigurgito di follìa pura, cosa si cela dietro il ragionamento del direttore sportivo della Juventus invece è tutt’altro che uno scherzo. Assegnando una valutazione iperbolica al portiere, ancorché il migliore del mondo, la società bianconera spe­disce infatti due messaggi forti e chiari: il pri­mo a Buffon medesimo, il secondo ad even­tuali acquirenti. Per la verità c’è spazio anche per un terzo messaggio, destinatari i tifosi. Cominciamo proprio da quest’ultimo e da quest’ultimi: se davvero esiste il parente stret­to di un emiro disposto a scucire l’equivalen­te di 155 miliardi delle vecchie lire - più di quanto la Juventus lo pagò nel 2001, più di quanto il Real Madrid versò per Zidane al­l’epilogo di un’epoca ricchissima e irripetibi­le - il ricavato dovrà essere subito investito per assicurarsi almeno tre fuoriclasse, uno per reparto, rendendo possibile ad esempio il so­gno Gerrard, l’ipotesi Lampard, la prospetti­va Toni. Dunque, finanziando la ricostruzio­ne della squadra.
Tornando invece a una dimensione più reali­stica, Buffon adesso ha piena consapevolezza del fatto che Secco e - per estensione del con­cetto - la società non intendono piegare la schiena qualora dovesse scegliere di abban­donare la Juventus. Non è indispensabile aspettare molto, questione di poche settimane, persino la bella Alena ha chiesto al suo com­pagno se deve attrezzarsi per fare le valigie oppure se continuerà a essere una pendolare dell’autostrada Torino-Milano. Buffon ha sempre pensato a una sorta di tacita accondi­scendenza da parte dei dirigenti dopo il gesto di buona volontà compiuto l’estate scorsa, ma probabilmente conviene che riveda le sue idee. Non fosse altro perché c’è un contratto con parecchi zeri e con scadenza nel giugno 2011. Insomma, il patto non esiste e se esiste ha la consistenza della marmellata. Allo stes­so modo, e siamo al messaggio finale, chi vuo­le il portierone deve sapere che sarà necessa­rio svenarsi per sfilarlo alla Juventus. Qua­ranta milioni non spostano, forse ce ne vanno quarantacinque, magari cinquanta. E chi si può permettere un’operazione che, nella sua interezza, cioè tenendo conto pure dell’ingag­gio, va per lo meno raddoppiata? Pochi, po­chissimi. Giusto Abramovich e Moratti: uno è coperto con Petr Cech, l’altro si porta ap­presso un problema non da poco di questi tempi. E’ il padrone dell’inter. Dunque?

Tuesday, April 24, 2007

L'EDITORIALE DI PADOVAN

EDITORIALE *
GIANCARLO PADOVAN

Da Tuttosport di lunedì 23 Aprile 2007

Sono sicuro che, purtroppo, non basterà scrivere che l’In­ter ha meritato lo scudetto 2006-2007; ammettere che a vincerlo è stata la squadra migliore e anche la più forte; spie­gare che Roberto Mancini, ben lungi dall’aver dimostrato di essere un grande allenatore (ci vogliono anni e un’umiltà pa­ri alle consapevolezze), ha certamente imboccato la strada della concretezza professionale (quella umana, invece, è un dono); dire che, in fondo, questo titolo appartiene a Massi­mo Moratti almeno quanto a Giacinto Facchetti, l’uomo che all’inter ha tentato – in parte riuscendovi e in parte no – di cambiare mentalità al club.
Non basterà perché – come sappiamo dall’estate scorsa e co­me dimostra il reciproco risentimento sull’asse Torino-Mi­lano – l’inter vince sul campo il proprio tricolore nella sta­gione in cui, per la prima volta nella storia dei campionati ita­liani, non c’è stata la Juve. E’ vero, si tratta di una respon­sabilità non direttamente riconducibile ai nerazzurri. Tuttavia l’assenza della Juve dalla competizione è un fatto oggettivo e come ta­le incontestabile. Allo stesso modo è indubitabile che la con­correnza di questa stagione sia stata minore per ampiezza e qualità rispetto almeno all’ultimo quinquennio. Anche di­ciotto anni fa, all’epoca del remoto trionfo interista firmato da Giovanni Trapattoni, il Napoli, il Milan, la Juve e la Sampdoria formavano un pacchetto di antagoniste assai più nutrito e qualificato della pur apprezzatissima Roma di Spal­letti. Quest’anno, poi, le penalizzazioni di Milan, Fiorentina, Lazio, Reggina, Siena hanno contribuito a rendere lo schie­ramento di partenza così anomalo da apparire tecnicamen­te contraffatto.
Ma non è solo il contesto la ragione per la quale lo scudetto interista sarà passibile di una valutazione critica non priva di eccezioni e distinguo. C’è anche che, in un rapporto diretto tra causa (retrocessione della Juve in serie B) ed effetto (ne­cessità di svendere i propri campioni indisponibili ad accet­tare il declassamento), l’inter si è rinforzata in maniera de­cisiva con gli acquisti di Vieira e Ibrahimovic. Quindi è sta­to proprio pescando a piene mani dall’avversario più dete­stato che Moratti ha trovato la spinta per fare il vuoto in una fuga senza inseguitori. Ovvio, nessuno vuol sostenere che quei giocatori Moratti li abbia sottratti indebitamente. Li ha regolarmente pagati e i nuovi dirigenti della Juve sono stati addirittura felici di cederli (chissà perché, ma è così). Anche in questo caso, se da una parte è giusto riconoscere che nel­l’inter il rendimento di Ibrahimovic mai era stato così alto e costante, dall’altra va ricordato che tanto lo svedese quanto Vieira erano scelte ascrivibili all’acume tecnico e mercanti­le dello staff dirigenziale juventino, composto dagli odiati Moggi, Giraudo e Bettega.
La contraddizione più palese, però, riguarda la rivendica­zione dello scudetto della stagione scorsa, espressa a più ri­prese e con estrema energia da Mancini e Moratti. Al tecni­co, fin dalla settimana passata, ha risposto Vieira dicendo che quello attuale è il suo secondo scudetto italiano (il primo, l’anno scorso, appunto, in bianconero). Invece a Moratti, che negli ultimi giorni ha fatto prevalere un’astiosa e ingiustifi­cata conflittualità sulla legittima soddisfazione per il succes­so, ha replicato proprio Ibrahimovic, il migliore tra gli inte­risti. Urlando che, in Italia, di scudetti lui ne ha collezionati tre. Due con la Juve e uno, giusto ieri, in maglia nerazzurra.

* Editoriale non in versione integrale (ndr.)

Sunday, April 22, 2007

E' COLPA DEI FORCAIOLI ANTI-JUVE SE ABBIAMO PERSO GLI EUROPEI

PAOLO BERTINETTI*
Da Tuttosport di sabato 21 Aprile 2007

Per lavoro ogni tanto vado in Inghilterra e a casa guardo il telegiornale della BBC; e per sfi­zio ogni tanto leggo L’Equipe. I giornalisti francesi e inglesi (per non parlare di quelli tedeschi, come sappiamo tutti da Becken­bauer) presero molto sul serio, e alla lettera, le tirate moralisti­che dei loro colleghi italiani, pre­sentandole al loro pubblico co­me lo scandalo che coinvolgeva tutto il calcio italiano. L’Italia dei piedi sporchi, quella che se­condo i moralisti suddetti dove­va lasciare a casa Lippi, Buffon e Cannavaro, vinse i Mondiali. Un mese dopo all’estero ci si ri­cordava solo dei piedi sporchi e della testata di Zidane. In com­penso si notava l’artificio arit­metico con cui si consentiva al Milan di giocare in Champions. Sarà anche vero che gli italia­ni non sanno le lingue straniere. Ma è grottesco che i nostri sup­ponenti responsabili calcistici non si rendessero conto di quale fosse l’opinione diffusa; e di come fosse facile chiedere di non dare gli Europei all’Italia. E’ vero che l’Uefa non è un esempio di lim­pidezza. E’ vero che la Polonia ha avuto i suoi scandali (inda­gando però, dissero i giornali, su tutte le squadre coinvolte e re­trocedendole tutte). L’Equipe di oggi pubblica un sondaggio: 7 lettori su 10 pensano che sia sta­to giusto bocciare l’Italia. Il Guardian di oggi spiega che l’I­talia ha perso per “le partite truccate” e per i suoi ultras, dife­si indirettamente dalle patriot­tiche dichiarazioni delle nostre autorità politiche e sportive.
Per questa bocciatura della candidatura italiana si deve ringraziare il nostro giornali­smo forcaiolo, che, pur di vedere affossata la Juve, ha fornito un quadro del calcio italiano degno di un fumettone sulla mafia. Se l’estate scorsa giornali e televi­sioni avessero tenuto lo stesso at­teggiamento che tennero per il caso Recoba e che di nuovo han­no tenuto per le eventuali irre­golarità dell’inter (ma che sem­bra non vogliano tenere per cal­ciopoli bis), non credo che ciò sa­rebbe accaduto. Agli occhi di chi all’estero ha preso per buone le sparate nostrane, è tutto il cal­cio italiano, autorità in primis, ad essere completamente inaffi­dabile.
La Figc farebbe bene a rivede­re tutta la vicenda di calciopoli, inter inclusa, dichiarazioni di Bergamo incluse, nel rispetto del diritto e dei diritti di tutti. Per­ché se dovesse essere un tribu­nale ordinario europeo, su ri­chiesta dei piccoli azionisti della Juve, a entrare nel merito, ho l’impressione che sarebbe dav­vero una catastrofe. E tutto per regalare uno scudetto all’inter!

* Presidente Associazione Nazionale Amici della Juventus

LA CADUTA DI ADRIANO E LA CADUTA DI STILE

LETTERA A MORATTI
GIANCARLO PADOVAN
Da Tuttosport di sabato 21 Aprile 2007

Stimatissimo dottor Moratti, torno a scriverLe a distanza di quindici giorni, convinto che El­la mi leggerà con la consueta attenzione. Pensavo di dedicare la mia missiva odierna alle laudi per il primo scudetto sul campo conqui­stato durante la Sua lunga e illuminata presidenza, oltre che ai me­riti dei Suoi collaboratori e dello staff tecnico capeggiato da Roberto Mancini. L’inopinata sconfitta interna con la Roma ha fatto rinviare di qualche giorno festeggiamenti e congratulazioni. Poco male, mi creda, prolungare l’attesa può servire ad amplificare la gioia della vittoria, soprattutto quando essa è autenticamente sportiva, frutto del lavoro e della fatica, della forza e della generosità.
Ma c’è un’altra ragione per la quale ritengo opportuno che la so­lennizzazione del trionfo interista abbia subìto un minimo spo­stamento. Si tratta dell’episodio, stigmatizzato da tutti ma non da Lei, grazie al quale Adriano si è procurato il calcio di rigore del pa­reggio contro i giallorossi. Che si trattasse di una palese simulazione è stato chiaro all’Italia intera. E, ove mai fosse esistito qualche dubbio, la ripresa televisiva l’ha spazzato senza pietà. Tanto che giovedì mattina, leggendo l’editoriale di Alessandro Vocalelli, di­rettore del Corriere dello Sport, mi sono trovato a tal punto in sin­tonia con le sue parole da desiderare di averLe scritte al suo posto. Diceva Vocalelli: «E sarebbe bello se il presidente Moratti, che ri­vendica la sua sportività a fronte di tante ingiustizie subìte, a men­te fredda censurasse il comportamento del suo giocatore e ag­giungesse che non è quello il modo per arrivare al risultato. Re­stiamo in fiduciosa attesa».
Caro presidente Moratti, anch’io, al pari di Vocalelli, ero in fidu­ciosa attesa. E, invece, sono stato scioccato dalla sua reazione che, a ventiquatt’ore dall’episodio incriminato, ho trovato veemente, scomposta, ingiustificata e, me lo permetta, antisportiva. Non so­lo Lei ha giustificato Adriano negando la simulazione, non solo ha preannunciato reclamo alla squalifica di due turni comminatagli in base al principio della prova tv, ma ha addirittura attaccato il provvedimento del giudice sportivo definendolo – leggo da La Gaz­zetta dello Sport – «una decisione che fa ridere, una cretinata infi­nita, una buffonata».
Non ci vuole un esperto di carte federali per stabilire che Lei, dot­tor Moratti, dopo dichiarazioni di tale virulenza, sarebbe passibi­le di deferimento. Tuttavia io mi auguro fortemente di no, perché vorrei evitare che Lei passasse ancora una volta da vittima del Si­stema, quando invece a quel Sistema appartiene a pieno titolo, dentro quel Sistema sta meditando di assumere la qualifica di vi­ce- presidente federale in barba ad ogni conflitto d’interesse, da quel Sistema è stato premiato con uno scudetto che la sua squadra non aveva vinto e, dunque, non meritava, a prescindere da chi do­veva vederselo sottratto con atto comunque arbitrario. Le dirò di più: fino a ieri sera ho sperato di tutto il cuore che ad Adriano ve­nisse annullata la squalifica, cosicché non sussistesse alcuna ombra di ostilità verso il Suo club e la Sua persona. In verità mi sembra che dal maggio scorso nelle sue contrade spiri un vento tutt’altro che sfavorevole, anche se non voglio sbilanciarmi in giudizi affret­tati. Fino a poco tempo fa, per esempio, ero assolutamente certo che Lei fosse del tutto diverso dagli altri padroni del calcio italiano. Ma, non me ne voglia, comincio a pensare di essermi sbagliato.
Augurandomi di sentirLa al più presto, il mio più cordiale in boc­ca al lupo.

Friday, April 20, 2007

UN ALTRO 5 MAGGIO NERAZZURRO

MARCO BERNARDINI
Da tuttosport di giovedì 19 Aprile 2007

MILANO. Cameriere, riporti in frigo lo champagne! Non era ora. Soltanto acqua mi­nerale, in attesa di un Chian­ti dei colli senesi, almeno fino a domenica prossima. Si de­vono accontentare le ugole nerazzurre, anche se ridotte in stato di drammatica arsu­ra da interminabili stagioni di dieta forzata nel corso del­le quali l’unico conforto liqui­do disponibile sapeva di aci­do. Il cerchio non si è ancora chiuso. Una linea lunga cin­que anni che avrebbe dovuto fissare, ieri, l’alfa con l’omega di una commedia perlomeno bizzarra. Era il cinque mag­gio e proprio nessuno quel giorno, a Roma, avrebbe osa­to scommettere un solo cen­tesimo sull’eventualità che l’inter potesse uscire dallo stadio Olimpico senza avere tra le mani quello scudetto la cui conquista, alla vigilia, do­veva essere letta più che al­tro come una banale forma­lità. Ebbene, le immagini di Ronaldo in lacrime, di Cu­per mummificato davanti al­la panchina e di Massimo Moratti addirittura traspa­rente in tribuna d’onore ri­mangono intatte e in replica, icone di un autentico incubo. Come lo scudetto cucito sul petto degli interisti contem­poranei, ricevuto in dono dai Tre Saggi (?) della Federcal­cio, il quale ha sortito l’effet­to che può fare il placebo a un malato terminale, dopo aver causato un attacco di ortica­ria a tutti coloro per i quali i trionfi sportivi ottenuti a ta­volino contano meno di zero. Doveva essere tutto quanto cancellato. Niente. Il cerchio resta aperto e le stelle continuano a divertir­si, selvagge e dispettose, con questa inter che non riesce proprio a festeggiare e, so­prattutto, non ce la fa a to­gliersi di dosso la polvere di antiche maledizioni. Ieri avrebbe potuto riuscirci scol­landosi, una volta per tutte, dal requiem contro la Lazio per passare all’inno del trico­lore contro la Roma. Sarebbe stato bellissimo e anche eso­tericamente perfetto. Non fosse altro che per legittima­re il peso economico di una fe­sta i cui preparativi, negli ul­timi cinque anni, a Massimo Moratti sono costati cento­cinquanta milioni di euro. Dunque anche soltanto in virtù del gioco delle probabi­lità i conti sarebbero dovuti tornare, per la pace in terra degli uomini cocciuti come lo stesso Moratti e per le anime sante di personaggi come Prisco e Facchetti il cui re­spiro mascherato da vento, ieri, faceva sventolare le ban­diere del popolo nerazzurro. Ma non è più tempo di re­gali. La Roma di Spalletti è squadra da tanto di “ cha­peau” in grado di saper mo­strare quanto e come sia pos­sibile coniugare il termine di­vertimento con quello di effi­cacia agonistica, per onorare al meglio il concetto sacro­santo di calcio spettacolo. Sic­ché non stupisce più di tanto che ciascun giallorosso si pre­senti in campo, per il tradi­zionale passeggio tasta- terre­no, con infilate nelle orecchie le cuffiette collegate al termi­nale di un “ MP3”. Sistema di­vertente e intelligente per evitare il condizionamento e lo stordimento acustico pro­dotto dal popolo nerazzurro che ha deciso di garantire ai suoi ragazzi l’appoggio di un tifo feroce. Come dire, fatevi pure uscire l’anima dai pol­moni ma se volete lo scudet­to, venite a prendervelo. Nul­la di strano, dunque, se ai buoni propositi dei guastafe­sta seguono puntuali anche i fatti con preziosità romaniste assortite, la cui sintesi va a coincidere con lo zenit nel preciso istante in cui la palla, calciata da Mancini, si spiac­cica contro il palo della porta interista. In quel momento Moratti balza in piedi con di­pinta sul viso una smorfia di preoccupazione. Ha manco il tempo di ripiazzarsi sulla poltroncina che Perrotta svergina Julio Cesar. Am­mutolisce lo stadio. Sbianca il presidente. E dire che, sia a livello di­rigenziale sia sul piano popo­lare, erano state prese antici­patamente tutte le precau­zioni utili per esorcizzare quella sfiga che, quando si tratta di inter, è sempre in punta come un setter da cac­cia. In mattinata, Letizia Mo­ratti si era presentata per l’i­naugurazione della “ Fiera del mobile” indossando un com­pleto in tinta rossonera. A chi la interrogava sulla stranez­za di quei colori per lei forse un poco blasfemi, proprio nel giorno in cui la squadra di suo cognato avrebbe potuto vincere lo scudetto, il sindaco rispondeva sorridendo: « Ap­punto per questo, un pizzico di scaramanzia talvolta non guasta » . Identico registro se­guito da Mao, il figlio di Mo­ratti, infilato dentro quella maglia del Celtic che aveva portato tanto bene nel derby, contro il Milan. Di più, addi­rittura, aveva fatto il segre­tario della società nerazzur­ra provvedendo a nascondere un telegramma indirizzato a Roberto Mancini e ai suoi ra­gazzi con il quale Fabio Can­navaro formulava ai suoi ex compagni “ i migliori auguri e i vivissimi complimenti per uno scudetto meritato”. Mamma mia. Vietato pro­nunciare la parola scudetto. Non prima della gara, alme­no.
E così fa, allineandosi nel rito sciamano, il popolo del Meazza. E’ solo e sempre un potentissimo, ininterrotto, urlo “ inter! inter!”. Manco una minuscola bandiera tri­colore a macchiare la selva nerazzurra, per non sfidare le stelle. Dovrebbe bastare. Già, dovrebbe. Materazzi, perlo­meno, ci crede e il suo rigore è perfetto, da manuale. Ma la Roma è un’ostrica e neppure Cruz, con le sue cesoie da giardiniere, riesce ad aprirla. Sicché, niente ostriche e quindi niente champagne. Ri­metta la bottiglia in frigo, ca­meriere. Anzi la offra a Totti e a Cassetti che loro, sì, pos­sono festeggiare.

NEL BARATRO TENENDOCI PER MANO

IL COMMENTO
GIANFRANCO TEOTINO
Da Tuttosport di giovedì 19 Aprile 2007

Una figuraccia. Anzi, di più: una vergogna. Per l’Italia. Per l’Italia intera. Siamo coinvolti tut­ti. Dal primo ministro Prodi, che ha «sussultato» leggendo un sms a Seul mentre il suo collega po­lacco esultava di ritorno da Cardiff, a questo gior­nale, che solo nelle ultime settimane si era accorto che ingannevole è il cuore sopra ogni cosa, che la vittoria annunciata non era poi così sicura, che non c’era sufficiente attenzione per una scadenza così importante. Pensate che ancora ieri la Gazzetta del­lo Sport relegava a pagina 17 il servizio su Euro 2012 dando per certa la scelta dell'Italia. Abbiamo sbagliato tutti prendendo per buone le assicura­zioni dell'armata Brancaleone che ci rappresenta­va in Galles. Come se le assegnazioni delle grandi manifestazioni sportive non siano sempre state de­cise la notte prima degli esami: ne sa qualcosa an­che Parigi bruciata allo sprint dalla meno dotata Londra per le Olimpiadi 2012. Gli eleganti, e gli ipocriti, le chiamano operazioni di lobbying, in qualche caso (Salt Lake City) è stata direttamente provata la corruzione. C'è una vasta letteratura in proposito. Comunque, dalle bustarelle alle coper­te, passando per prebende e regalie varie ed even­tuali, mai nessuno ha vinto esclusivamente per comprovati meriti etici. Neanche Torino 2006.
E invece noi, anime candide, siamo arrivati a Car­diff convinti di essere più bravi, più belli, più tut­to. Noi abbiamo le città più affascinanti, noi ab­biamo gli alberghi più comodi, noi abbiamo arte, cultura e paesaggio, noi abbiamo i ristoranti più succulenti, noi avremo gli stadi più moderni, noi sì che abbiamo presentato progetti seri, mentre i no­stri avversari... straccioni dell'Est. La violenza? Tutto il mondo è paese. Calciopoli? Ma figuratevi se inciderà, gli scandali sono dappertutto. E così via, allegramente, nel baratro, tenendoci per mano. Due commissari straordinari, l'ineffabile Rossi e l'ingenuo Pancalli, si sono succeduti all'insegna del ripuliremo tutto e hanno mantenuto Franco Car­raro, il presidente del più grande scandalo della sto­ria del calcio italiano, rappresentante italiano nel­l'esecutivo Uefa. Cavallo di Troia. Da non credere. Abbiamo eletto il presidente della Federcalcio, con­dizione
sine qua non si poteva nemmeno parteci­pare alla votazione di ieri, quasi fuori tempo mas­simo e il primo atto dell’uomo del rinnovamento Abete (scappa da ridere, ma bisognerebbe piange­re) è stato rinviare la nomina del Consiglio federa­le e dei vice-presidenti, altrimenti sarebbe stata su­bito crisi. La più alta carica dello Stato presente a Cardiff, dove Polonia e Ucraina erano rappresen­tati dai rispettivi presidenti della Repubblica, era il ministro Melandri, che verrà ricordata per le la­crime sparse all’annuncio della sconfitta.
Qualcuno dice. Abbiamo perso Euro 2012. E allo­ra? Che sarà mai? Non ricordate i disastri di Ita­lia 90? Ricordiamo, ricordiamo. Ma purtroppo questo è un Paese che non riesce a scattare senza la molla di un grande evento. Se gli stadi sono uno de­gli elementi di maggiore criticità del calcio italiano, e certamente lo sono, questa era davvero una gran­de occasione. Una grande occasione buttata via. Pensate al valore sociale di un progetto come quel­lo del nuovo impianto napoletano a Scampia.
Anche la Juventus ieri ha subito una brutta scon­fitta. Forse ingiusta, come ingiuste erano state le conclusioni del processo sportivo, ma, come allo­ra, non del tutto immeritata. La Juventus ha la colpa di aver creduto in Pancalli, di avere eletto Matarrese e di avere appoggiato Abete, i tre uo­mini che con Carraro e il Governo, hanno trasci­nato l’Italia alla disfatta. Ma non è ancora tutto perduto. Qualche povero di spirito a Torino ha ad­dirittura cercato di mettere in piedi un referen­dum «contro lo stadio della Juve», senza capire che i tassi agevolati concessi per gli impianti delle otto città destinate a ospitare gli Europei non era­no un esproprio alla collettività, ma un modo per rilanciare il sistema e venire incontro alle esigen­ze del pubblico degli appassionati. La speranza ora è che il Governo destini le risorse già accanto­nate per Euro 2012 a un piano nazionale di priva­tizzazione e ristrutturazione degli stadi. Come fe­ce il Governo inglese negli anni ’90. Perché, pur­troppo, senza un aiuto pubblico gli attuali diri­genti del calcio italiano non riusciranno mai a ri­gonfiare il pallone.

Tuesday, April 17, 2007

CORAGGIO DIDIER C’E’ UNA SOLUZIONE

EDITORIALE
GIANCARLO PADOVAN
Da Tuttosport di martedì 17 Aprile 2007

In questi giorni Didier Deschamps non sem­bra tranquillo. Eppure avrebbe molte ra­gioni per esserlo. In fin dei conti a prendere la Juve per sollevarla dalla serie B (e da una non proprio leggera penalizzazione), dopo che la sventura aveva scoperchiato il tetto e minato le fondamenta del club, c’era più da perdere che da guadagnare. Sia perché la Juve è sempre la Juve e, se non va al massimo, le turbolenze so­no all’ordine del giorno; sia perché si trattava di un’avventura al buio. Non c’era solo da sco­prire l’effetto di una retrocessione traumatiz­zante, si trattava anche di incrementare, da una parte lo spirito di reazione, dall’altra la sopportazione di un ambiente perplesso, ri­sentito, angosciato. Fabio Capello, tanto per dire l’ultimo che sulla panchina bianconera stava seduto, si era subito dato da fare prima verso Moratti (non fosse esploso lo scandalo sarebbe finito in nerazzurro), poi con quei di­rigenti così sicuri di portare a termine la sca­lata al Real Madrid. Deschamps, illuso da Moggi e Giraudo giusto due anni prima e poi bruciato sul traguardo proprio da Capello, al­tro non sembrava che l’uomo del pronto in­tervento, lucido e paziente nei giorni torridi in cui tutto sembrava compromesso (la richiesta di retrocessione in serie C1, la prima condan­na alla serie B con 30 punti sotto zero), inerte di fronte alla fuga dei campioni veri e presun­ti, muto e solitario al cospetto di uno scenario di devastazione.
Con Deschamps non sono mai stato tenero. An­zi, come a volte mi capita, fin troppo esigente e, in qualche occasione, spietato. Tuttavia non si trattava né di un fatto personale (sarebbe stupido prima che ingiusto), né di prevenzione o nostalgia, meno che mai di antipatia o di al­tre motivazioni legate alla sfera dell’umora­lità: è che proprio la sua Juve poche volte ha giocato da squadra e quasi mai da grande squadra. Se, però, come ho ammesso, guidar­la era un’impresa tanto per lui quanto per il nuovo management (Cobolli Gigli, Blanc, Sec­co), è giusto ora almeno riconoscergli ciò che la classifica annuncia come un dominio.
Spiace, dunque, scoprire Didier accigliato quando invece potrebbe godere le prime gioie di una stagione colma di spine. Tuttavia se il di­sagio dovesse provenire – come crediamo di avere capito – dall’incombere di Marcello Lip­pi, vorrei per quanto mi è possibile rassicura­re l’allenatore francese. Infatti è mia convin­zione che Lippi non stia pensando alla Juve, ma piuttosto che qualcuno alla Juve (dentro o intorno) pensi a lui ben sapendo di non dispia­cergli. Allo stesso modo sono persuaso che Lip­pi – come mi confidò nella primavera del 2004 – guardi al suo futuro senza immaginarsi per forza in panchina. Casomai – me lo disse allo­ra – nel ruolo di direttore tecnico con un colle­ga di campo – bravo, giovane, serio, scrupolo­so e ambizioso – come primo interlocutore. Non si tratta di ridurre Deschamps a fargli, nei fat­ti, da secondo. Casomai di sposare il modello inglese. Lì il responsabile tecnico è anche ge­neral manager, la figura che, secondo me, più è mancata quest’anno alla Juve. Tanto per da­re una dimensione a quel tipo di organizzazio­ne, Alex Ferguson è il manager del Manche­ster United. Ma a dirigere gli allenamenti non è esattamente un carneade, bensì Carlos Quei­roz, ex c.t. del Portogallo e per una stagione (tre anni fa) tecnico in prima del Real Madrid. Pensaci, allora, Didier. E su con la Juve.

Monday, April 16, 2007

SCRIVETE AL PRESIDENTE ABETE PER RIAPRIRE I CASI SOMMERSI

L’INVITO DI BERTINETTI
PAOLO BERTINETTI*
Da Tuttosport di lunedì 16 Aprile 2007

Come un anno fa, con lo stesso tempismo che di nuo­vo consente l’invocazione ad agire con urgenza, questa volta però non grazie alla pubblicazione illegale delle in­tercettazioni ma con l’avviso di chiusura delle indagini, giungono le notizie legate alla fantasiosa associazione a delinquere elaborata dai magistrati napoletani.
L’Ufficio Indagini della FIGC si metterà in moto con tempestività, così come non si è mosso per nulla riguar­do alle non fantasiose accuse relative a plusvalenze e a vendita del marchio a se stessi dell’inter, perché con tem­pismo alla rovescia il “ materiale probatorio” non giun­ge mai sul tavolo di Borrelli. Mentre ai giornali arriva­no gli argomenti innocentisti degli avvocati di Moratti. I giornalisti amanti del linciaggio, che quando ri­guarda la Juve scambiano le accuse per sentenze defi­nitive, annunciano Moggiopoli 2 e ulteriori penalità al­la Juve. Sono gli stessi che ci spiegavano come la giu­stizia sportiva dovesse intervenire solo dopo che ci fosse stata una sentenza definitiva della giustizia ordinaria sul caso passaporti falsi. Agli amanti dello sport sembra non resti altro che chiedere di non parlare più di tutta questa fumosa vicenda che ha prodotto solo due risultati certi: la cacciata della Juve in B e una serie A comple­tamente fasulla ( come provano senza possibilità di ap­pello i risultati di Champions).
Molte Associazioni e Siti di tifosi juventini pensano in­vece che sia assai più utile al calcio italiano riconside­rare l’intera vicenda, senza procedure d’urgenza, nel ri­spetto dei diritti della difesa ascoltando tutti i testimo­ni e prendendo in esame quegli aspetti decisivi finora ignorati ( le dichiarazioni di Paolo Bergamo) e quelli non indagati in attesa di prescrizione. E invitano pertanto tutti gli sportivi italiani, juventini e non, a scrivere al presidente Abete chiedendo la riapertura di calciopoli. Non fosse altro che per eliminare il dubbio che l’estate scorsa si sia indagato e giudicato a senso unico, non per punire gli illeciti ( peraltro dichiarati inesistenti) ma per eseguire una vendetta. I magistrati napoletani indaga­vano solo su Moggi. La FIGC, almeno per ciò che ri­guarda la lealtà sportiva, ha il diritto, oltre che il dove­re, di indagare sugli altri, in particolare su chi è reo confesso.

*Presidente Associazione Nazionale Amici della Juve

Friday, April 13, 2007

IN GRADO DI CONDIZIONARE I CAMPIONATI

STEFANO SALANDIN
Da Tuttosport di venerdì 13 Aprile 2007

Un dispositivo di 25 pagine di avviso chiusra indagini prelimi­nari: è ciò che si sono visti conse­gnare dai carabinieri, mobilitati nella tarda mattinata di ieri, gli indagati dalla Procura di Napoli nell’indagine condotta su Calcio­poli e “dilatatasi al campionato 2004-2005 grazie agli atti (tabu­lati di utenze telefoniche) tra­smesse ai colleghi napoletani dal procuratore torinese Raffaele Guariniello. Nelle pagine di premessa del dispositivo, i giudici napoletani tornano a parlare della associa­zione (la famosa “cupola del pro­cesso di Calciopoli, ndr) formata da Giraudo, Moggi, Mazzini, Bergamo, Pairetto e De San­tis costituita “in epoca e in luogo imprecisati” ma “operante in tut­to il territorio nazionale” e co­munque in grado, oltre che “di condizionare i campionati”, di procurare “illeciti e ingentissimi profitti” agli affiliati all’associa­zione. Ci sono anche aspetti cu­riosi, nelle pagine introduttive. I pm napoletani, per esempio, so­stengono tuttora che Moggi avrebbe condizionato i vertici del­la Figc per garantire l’iscrizione al campionato di serie A di Mes­sina e Reggina. Peccato che solo poche settimane fa la Procura fe­derale abbia, dopo aver «esami­nato gli atti dell’Ufficio indagini» archiviato il procedimento. Già, perlomeno curioso. La novità so­stanziale, rispetto al primo pro­cesso sportivo, è l’evidenza di un possibile coinvolgimento degli ar­bitri che sarebbero stati in pos­sesso ( Paparesta, Racalbuto, Cassarà, Dattilo, Bertini, Ga­briele, De Santis e Ambrosi­no) delle famose schede telefoni­che svizzere che sarebbero state fornite da Moggi anche agli altri dirigenti. Il dispositivo passa poi ad analizzare le partite che sa­rebbero state condizionate.

Ve­diamo le più importanti.

Juventus-Milan.
Disputatasi a Torino il 18 dicembre 2004 è finita 0-0. Per quel match sono stati indagati Mariano Fabia­ni (vero e proprio “deus ex ma­china” di quel campionato) al­l’epoca direttore sportivo del Messina, Luciano Moggi, diret­tore generale della Juventus e l’arbitro Paolo Bertini. I tre “in concorso tra loro ed in esecuzio­ne del programma criminale della associazione per delinquer­e’’ al centro dell’indagine avrebbero partecipato all’opera­zione tesa a influenzare il risul­tato dell’incontro. Moggi e Fa­biani vengono indicati come gli istigatori e accusati di aver com­piuto ’’atti fraudolenti e finaliz­zati a influire sul risultato del­l’incontro di calcio’’. Un esito “perseguito dal Bertini che si adoperava per il conseguimento di un risultato comunque favo­revole alla squadra di Moggi’’. C’è l’aggravante “di aver com­messo il fatto predeterminando il risultato di un incontro di cal­cio influente ai fini dello svolgi­mento di concorsi, pronostici e scommesse regolarmente eser­citati’’. La partita, conclusasi sul risultato di parità, confermò il vantaggio della Juventus con quattro punti sul Milan.

Roma-Juventus.
Un sorteg­gio arbitrale manipolato alla base di Roma-Juventus, la par­tita del 5 marzo 2005 all’Olim­pico: la gara, già finita tra quel­le sospette nella prima fase del­l’inchiesta della Procura di Na­poli, si arricchisce di nuovi ele­menti. Sono indagati per frode sportiva, in seguito alle inte­grazioni dovute all’acquisizione di nuovi atti, Luciano Moggi, Antonio Giraudo, Paolo Berga­mo e Pier Luigi Pairetto, allora designatori arbitrali, Mariano Fabiani e - nome nuovo dell’in­chiesta - Maria Grazia Fazi, im­piegata della Figc, i componen­ti della terna arbitrale e cioè Salvatore Racalbuto, Narciso Pisacreta, Marco Ivaldi e il quarto ufficiale di gara Marco Gabriele. L’accusa è di aver “compiuto atti fraudolenti che, alterando la corretta e genuina procedura di sorteggio del di­rettore di gara valida per il campionato 2004-2005, quella per la designazione degli assi­stenti del direttore di gara e del quarto ufficiale di gara prede­terminavano il risultato del­l’incontro tra Roma e Juventus. Terna arbitrale e quarto uomo, sostiene la Procura, si adopera­vano per il raggiungimento di un risultato comunque favore­vole alla squadra del Moggi e del Giraudo’’.

Wednesday, April 11, 2007

TRE CAPITANI CORAGGIOSI

EDITORIALE
GIANCARLO PADOVAN
Da Tuttosport di mercoledì 11 Aprile 2007

Questa volta è stato tutto bello. La partita prima di ogni altra cosa (e, ci scuserà Mondonico, siamo d’ac­cordo con Nedved che ha riconosciuto al Napoli la voglia di misurarsi gio­cando); la Juventus, finalmente squa­dra nella pienezza del termine e del­l’espressione, stimolata da uno stadio ricolmo di voglia di calcio e da un av­versario di valore e tradizione; De­schamps (sì proprio lui), l’allenatore che spesso critichiamo e, a volte, pure aspramente, perché non era vero che si sarebbe accontentato del pari e si è vi­sto dalla formazione che ha schierato e dalla determinazione messa su ogni pallone. E poi bellissimi – nel senso di bravissimi – Pavel Nedved, Alessandro Del Piero e Gianluigi Buffon.
Quel che è accaduto al 43’ della ripre­sa, quando uno stremato Del Piero – aveva fatto l’attaccante unico dopo l’e­spulsione di Marchisio e la conseguen­te sostituzione di Trezeguet con Paro – è stato avvicendato da Palladino, e Alex ha dovuto cedere la sua fascia a Gigi Buffon, è apparso importante al­meno quanto il risultato. La necessità ha assunto valore simbolico e il popo­lo presente all’Olimpico di Torino ha capito che la storia si stava saldando in un passaggio: la fascia, certo, ma an­che il ponte dalla serie B di tutti i do­lori alla serie Adi tutti i sapori.
Del Piero e Buffon oggi sono gli uomi­ni della certezza e della speranza, del­la rabbia e dell’orgoglio, di talento e fatica, abilità e pazienza. Ecco perché, in quel ravvicinato contatto, il mezzo – la fascia e l’insegna del leader – era il messaggio. Di leader la Juve ne ha più di uno. Loro due senz’altro, ma tanti altri stanno ritrovando o imboccando la strada che porta a far confluire la grandezza individuale in un progetto complesso e articolato.
Oltre a Buffon e Del Piero, si è staglia­to Pavel Nedved. Nel raccogliere le pa­role adeguate per raccontarne la dedi­zione, la quantità, la qualità, la conti­nuità, basterebbe ricordarsi che quan­do lo si nomina si sta parlando di un Pallone d’Oro (2003). Ben lungi dal co­stituire un traguardo, quel riconosci­mento ha rappresentato per Nedved il pungolo per migliorare ancora, come se ogni partita dovesse decidere un de­stino. Nedved, ieri, contro il Napoli, ha fatto tutto. Risolutivo in fase offensiva quando ha fornito l’assist vincente a Camoranesi ( acrobatico nella circo­stanza del primo, importantissimo gol), altruista nelle due successive cir­costanze a beneficio di Trezeguet (opa­co e rimpallato) e di Palladino (preci­pitoso e fuori misura). Ma il bello – bellissimo per chi allena e chiede sa­crificio a ciascuno indistintamente quando la situazione è di emergenza – è come Nedved per primo e Del Piero al suo pari, ma pure Camoranesi e Ze­bina, Giannichedda e Boumsong si so­no prodigati nel momento in cui la Ju­ve è rimasta in dieci contro undici, causa espulsione di Marchisio. La mia opinione è che l’arbitro abbia sbaglia­to due volte. Primo, non espellendo Giannichedda che, per il fallo su Gat­ti, avrebbe meritato il rosso. Secondo, compensando la mancanza di pochi minuti prima con la durezza nel colpi­re il calciatore giovane e meno noto. In ogni caso, aver abbassato la testa per continuare a giocare, come se si fosse sullo 0-0, è stato il connotato più serio e convincente della Juve. Da ieri, per diritto del campo, legittimata a esige­re la serie A.

Saturday, April 07, 2007

A CALCIO NON SI GIOCA COSI’

EDITORIALE
GIANCARLO PADOVAN
Da Tuttosport di sabato 7 Aprile 2007

Il problema non è necessariamente la Juve, né (sempre) De­schamps. Il problema è che a calcio non si gioca così. Ma se si af­fronta una squadra allenata da Mondonico bisogna saperlo e accet­tare un confronto spigoloso e irto. Chi non lo sa, deve informarsi. E, una volta informato, trovare le contromisure. La Juve ha mosso po­co sulle fasce per meritare di vincere e poi, nel secondo tempo, occu­pato con troppi uomini l’altrui metacampo. Sembra un paradosso. In realtà diventa una condanna nel momento in cui quegli elementi ricevono palla da fermi. Anziché movimento essi provocano densità, esattamente quel che Mondonico cerca e vuole arretrando tutti i suoi. La Juve non ha mancato la vittoria perché Bojinov ha colpito il pa­lo (bravo e sfortunato) o perché Trezeguet non ha trovato la porta (in verità assai poco cercata). Ha “solo” pareggiato, intanto, perché ha subìto un gol. E poi perché, grazie all’intuizione di Balzaretti, ne ha trovato uno su errore difensivo dell’AlbinoLeffe. Nulla in confronto all’amnesia della retroguardia bianconera in occasione del vantag­gio di Ruopolo. Da più parti è stato sottolineato il felice tocco smar­cante di Bonazzi a beneficio del proprio attaccante. Non c’è dubbio che così sia stato, anche se a tal proposito va spiegato che l’errore ju­ventino discende non solo dalla staticità della linea difensiva, ma an­che dal fatto che su un pallone del genere i difensori devono arretrare per annullare la profondità, altrimenti concessa all’avversario. In situazioni del genere, non l’allenatore ma i giocatori devono saper leg­gere la situazione (l’allenatore, casomai, deve abituarli con la prati­ca sul campo).
Cosa si guarda in quel caso? Non l’avversario, ma la palla. Se la pal­la è scoperta o libera – ovvero nessuno tra i centrocampisti non in possesso contrasta, pressa o almeno accorcia – è opportuno arretra­re. Dunque, ben prima che Bonazzi colpisse prolungando, Birindel­li, Boumsong e Chiellini avrebbero dovuto ridurre lo spazio alle lo­ro spalle. L’errore, naturalmente, è contemplato, ma quando è col­lettivo allarma più dell’errore individuale.
Ha ragione Deschamps a sottolineare che questa squadra resta nuo­va – alcuni campioni e molti giovani –, che è una squadra di attesa e transizione, ancora bisognosa di verifiche. Sbaglia, però, nel soste­nere che non si può sempre girare a mille. Primo, perché la sua Ju­ve ha girato a mille pochissime volte. Secondo: perché alla trenta­treesima giornata qualcosa di meglio di un pari interno con l’Albi­noLeffe è lecito aspettarselo.
I fischi del pubblico – anche quelli seguìti al vantaggio dei bergama­schi – erano comprensibili in rapporto alle prestazioni. Sempreché, ovviamente, non si guardi solo alla classifica e si provveda a conso­larsi con quella. E’ ovvio che né la Juve, né chi tifa Juve può fermarsi alla superficie. Ritrovarsi in testa alla serie B è nell’ordine naturale delle cose. Come lo sarebbe stato battere l’AlbinoLeffe. Può non ac­cadere, però poi non ci si deve lamentare delle disapprovazioni. Be­ne ha fatto Balzaretti a chiedere scusa ai tifosi per la stizza esibita do­po il proprio gol. Bene faranno i tifosi, anche i più critici, a morder­si lingua e labbra, prima di contestare ancora. Contro il Napoli ser­ve il pieno: di punti e di (buone) intenzioni. E con queste premesse facile non sarà.

Friday, April 06, 2007

ABETE, RIAPRA CALCIOPOLI

PAOLO BERTINETTI*
Da Tuttosport di venerdì 6 Aprile 2007

Caro Direttore, mi dispiace dirle che questa volta non sono d’accordo con lei. Mi riferisco alla sua cortesissima lettera a Moratti. Lei fa giustamen­te notare che una squadra a cui è stato assegnato lo scudetto degli onesti non può essere la stessa squadra che faceva spiare arbitri e calciatori – cosa rico­nosciuta da Moratti stesso e teorizzata come giusta da alcuni illustri sosteni­tori dell’inter con la spiegazione che bisognava difendersi da un complotto contro l’inter del “Sistema calcio”. In spregio della legge? E poi, quale Si­stema? Un sistema più potente e organizzato di quello davvero esistente, e davvero preoccupante, che faceva capo alla Security della ditta del collega in­terista Tronchetti Provera?
Su un punto cruciale, tuttavia, non sono d’accordo con lei. Parlando dell’inter di quest’anno lei la descrive come “prossima vincitrice dello scudetto per meri­ti acquisiti esclusivamente sul campo”. Esclusivamente? Ma questo è un cam­pionato virtuale, un campionato dei puffi, dal quale è stata estromessa la Ju­ventus cacciandola in B a furor di media e sono state penalizzate quasi tutte le maggiori concorrenti (nei punti e, per una lunga fase iniziale, nell’atteggiamento psicologico). Che poi la Juventus abbia dato una mano con la vendita di Vieira e Ibra, permettendo all’inter di fare meglio sul campo, è anche vero. Ma que­sto fa parte dei misteri dolorosi dell’estate 2006. Quale merito avrebbe questo scudetto 2007? Persino la natura si ribella: l’inter è stata campione d’inverno nell’unico anno in cui l’inverno non c’è stato!
Il fatto è, come dimostrano le recenti decisioni delle autorità sportive, che “cal­ciopoli” , come già le scrivevo fin da metà luglio, è stato esattamente ciò che si voleva che fosse: l’affossamento della Juve e qualche buffetto ai birichini. Pro­prio alla luce di queste ultime diminuzioni generalizzate delle pene, la nostra as­sociazione e le altre associazioni e siti juventini che condividono l’idea invite­ranno tutti i tifosi a sottoscrivere una richiesta al neo Presidente Abete affinché riapra non solo il grottesco caso dello “scudetto degli onesti”, ma l’intero caso calciopoli. Affinché a riscrivere quella penosa pagina di giustizia sommaria sia­no le autorità sportive stesse, e quindi non i vari TAR (che eventualmente pro­cedono per conto loro), non la giustizia ordinaria, ma la giustizia sportiva. Pur­ché si prefigga di essere giustizia, di vagliare le accuse, di valutare gli indizi, di rispettare i diritti della difesa, di pronunciare le sue sentenze in base alle rego­le e alle norme; e non in base agli strepiti di giornalisti e tifosi avversari.

* Presidente dell’Associazione Nazionale Amici della Juventus

CON NOI NON VINCETE MAI

ANDREA PAVAN
Da Tuttosport di giovedì 5 Aprile 2007

Alla fine, a quelli dell­’inter, non è rimasto altro che urlare «serie B, serie B», invi­tando gli juventini a salutare la capolista: di un altro torneo però, oltre che di un altro mon­do e su altri palcoscenici. Perché su quelli calcati insieme, in que­sta stagione come del resto per troppi anni prima, è per l’inter che non ce n’è. Mai. E non è col­pa della Juve (o meglio: non di questa Juve) se le opportunità di confronto diretto - ancorché unidirezionale - sono state solo nei trofei Tim e Moretti e nelle disfide di Primavera. Cinque pappine nella Supercoppa d’au­tunno, superiorità conclamata anche nella duplice finale di Coppitalia: due a zero senza troppe discussioni mercoledì scorso a Vinovo; uno a uno sen­za penando zero ieri, sul campo del centro intitolato alla memo­ria di Facchetti ma alla salute delle centinaia di cadetti bian­coneri convenuti a interello, di­minutivo mai come stavolta ap­propriato. E, quale bonus, alla faccia di Mancini, spettatore a bordo campo con la sua sciarpi­na rosa: appena ha preso a pio­vere, ha fatto che smammare, forse perché ormai si è abituato a commentare soltanto vittorie. «Evidentemente, l’inter ci por­ta bene» rileva con goduto di­stacco Alessio Secco, il diesse di Cobolli che è venuto a rappre­sentare. «Una società di serie B che batte un club di serie A è si­curamente una gran bella cosa», rimarca con consapevole perfi­dia Vincenzo Chiarenza, il ma­nico urlatore (non sta zitto un secondo, in panca, al confronto Cosmi e Novellino sono dei di­lettanti) cui piace prendersi qualche rivincita dialettica an­che nei confronti del suo supe­riore Deschamps. Figuratevi allora il popolo: un agglomerato ultrà giunto non solo dall’hin­terland milanese, considerata l’invasione in tribuna dei ragaz­zi di Storgato e Maggiora, Al­lievi e Giovanissimi al completo per alimentare la grancassa bianconera e insieme rinvigorire il ricordo di Riccardo e Alessio, Neri e Ferramosca, morti per un pallone sbagliato da recupe­rare ma giammai affogati nell’o­blio: quello sì sarebbe un delitto. «Lanza’, fame di gol» recitava uno striscione vergato da pen­narello fraterno sulle gradinate nel settore ospiti, separato dal­l’avanguardia di Curva Nord in­terista (diffidati compresi, a ri­vendicare l’antica libertà) da un cordone di poliziotti e steward degno d’una finale di Cham­pions. E Lanzafame, appena l’ha schiaffata dentro di volée sul cross di Maniero, proprio là sotto è corso, togliendosi la ma­glietta come fanno i grandi e chissenefrega dell’ammonizione. C’era la dedica per Ric e Alex da mostrare, «rimarrete sempre nei nostri cuori». Peccato per la de­riva tifosa che - malgrado qual­che fase di tensione mai sia de­ragliata in scontri - non ha im­pedito a sberleffi e insulti di tra­cimare nell’inconcepibile offesa alla morte, dunque alla vita. Censurare è sempre sbagliato. Anche un coretto come «gobbo maledetto sei caduto nel laghet­to ». Meglio denunciare, e reagi­re, ma con intelligenza. Come ha fatto Giuseppe Rizza, terzino si­nistro molestato per l’intera ri­presa a bordo rete, dove gio­coforza s’avvicinava con fre­quenza. Si è preso pure delle spruzzate d’acqua via bottigliet­ta, qualche monito per la serie «ci vediamo fuori», al quale ha replicato con alcune occhiatacce, a condire una prestazione che a livello di imprecazioni è stata tutto un rosario. Però ha tenuto botta e al fischio finale, mentre i compagni s’abbracciavano can­tando «chi non salta interista è», ha fatto salire di molto il suo vo­to in pagella. «Dammi i panta­loncini » gli urlavano per sfotter­lo. Lui, dopo averci pensato un poco su, se li è sfilati per passar­li, sopra la grata protettiva, nel­le mani stupite e forse un poco imbarazzate di chi fin lì l’aveva infamato. Chapeau. «Mi hanno veramente maltrattato, dicen­domene di tutti i colori, ma a darmi davvero fastidio è stata la frase “Rizza anche tu nel la­ghetto”. Però alla fine c’era un’a­ria al confine con lo scherzo, e al­lora... ». Allora lui l’ha valicato, con arguzia e saggezza. «Per stemperare la tensione». Giù le braghe, in alto i cuori. La tecnica juventina, di cui il giovine Giovinco è il minusco­lo-maiuscolo emblema, almeno a questi livelli fa ancora le scar­pe all’esuberanza fisica degli in­teristi, penalizzati anche da 9 anni d’età media in meno. Ad e dg chiamato con grande classe a far le veci di Moratti, Ernesto Paolillo pratica il fair play che predica: «La Juve ha strameri­tato, onore alla Juve. Noi abbia­mo puntato sulla linea verde per durare negli anni: ma loro sono superiori non solo anagrafica­mente. Nessun amaro in bocca, sono contento per come abbiamo combattuto: speriamo di rifarci in campionato. E speriamo che le tifoserie, divise ma unite dal buon senso, mantengano una ri­valità leale, senza ostilità, anche quando ci ritroveremo in serie A». Dove peraltro, mentre la babyJuve s’annaffia di champa­gne, i tifosi fanno capire di sen­tirsi già. Di nuovo. Da sempre. Per sempre. «Non vincete mai» e «i campioni dell’Italia siamo noi». Giusto per ricordare, ri­muovendo Calciopoli.

Thursday, April 05, 2007

LETTERA A MORATTI

PER FAVORE, CI DIMOSTRI CHE L’inter NON SPIAVA
GIANCARLO PADOVAN
Da Tuttosport di giovedì 5 Aprile 2007

Dottor Moratti, scusi l’insistenza e perdoni la familiarità. Ma or­mai scriverLe una lettera alla settimana è un bisogno inderogabile oltre che un rito piacevole. Torno a far­lo perché gli accadimenti degli ultimi giorni La chia­mano in causa, in verità in maniera assai pesante, per quella faccenda che tanto l’ha disturbata già in pas­sato. Ovvero l’opera di spionaggio che l’inter, par­tendo da arbitri e assistenti, avrebbe esteso ai propri giocatori, ora tutti ex. Gli ultimi, in ordine di rico­struzione, di cui ha parlato Emanuele Cipriani, uno dei principali indagati dell’affare Telecom, sono Ju­govic e Mutu. Le fatture per il servizio erano rego­larmente pagate dall’internazionale Football Club Milano e i soldi indirizzati a società con sede estera.
Che il racconto reso agli inquirenti dal detective pri­vato non faccia onore alla squadra già campione del­l’Italia per l’onestà delle opere e delle intenzioni, ol­tre che prossima vincitrice dello scudetto per meriti acquisiti esclusivamente sul campo, è lampante a tut­ti e non può certo sfuggire a Lei. Tuttavia, se guar­diamo agli effetti, c’è qualcosa di peggio di queste ri­velazioni. Ed è l’ostinato silenzio dietro al quale il club che Lei presiede si barrica. Per non parlare del­la baldanza di qualche suo tesserato – a digiuno di legge e diritto – capace di rivendicare questa attività come legittima, perché il Sistema ha sempre com­plottato contro l’inter e, dunque, in qualche manie­ra, bisognava pur difendersi.
Ammesso che l’inter dovesse difendersi, ha potuto farlo ricorrendo a pratiche illecite? E ogni volta che l’ha fatto, per esempio spulciando tra i conti dell’ex arbitro De Santis, cos’ha trovato? Nulla di nulla. Lo disse proprio Lei – ricorda? – in un’ormai irrinun­ciabile intervista concessa al collega Roberto Bec­cantini su La Stampa.

Ora, dottor Moratti, che l’inter volesse sapere con chi uscissero Mutu e Jugovic, Vieri e altri; a che ora rientrassero e quanto si divertissero, da un certo pun­to di vista è comprensibile, considerato il livello non eccelso delle parti in causa. Piuttosto – e me lo deve concedere – non mi capacito dell’interessamento su quanto effettivamente essi custodissero in banca o de­nunciassero alle imposte. Cosa temeva in realtà, Pre­sidente? Che sperperassero i soldi tanto generosa­mente da Lei versati? Che non facessero il loro dove­re di cittadini contribuenti? O magari che altri aves­sero intenzione di sovvenzionarli più di quanto già Lei sovvenzionava?
Ammetterà, gentile Presidente, che da queste silenti perlustrazioni almeno lo stile – suo e dell’inter – ri­sulti intaccato. E, forse, non solo lo stile. Mi permet­ta, dunque, un secondo consiglio – sempre non ri­chiesto – dopo quello dei giorni scorsi, in cui tentavo di dissuaderla dall’accettare la carica di vice Abete in Federcalcio, in considerazione di un’indagine per fal­so in bilancio aperta dalla Procura di Milano nei suoi confronti, oltre che – beninteso – delle faccenduole relative al grande orecchio-Telecom. Più che un con­siglio, il mio è un appello: dica, dottor Moratti, che nulla di questa storia è vero; spieghi e magari dimo­stri che è tutto un complotto orchestrato dai poteri cui l’inter è costituzionalmente estranea; ribadisca che né Lei, né il suo club c’entrano qualcosa e che, anzi, siete vittime di Tavaroli e Cipriani. Altrimenti, sa com’è, qualcuno potrebbe dubitare. Non sarebbe bel­lo e, forse, nemmeno giusto.
Ancora una volta a presto.

Monday, April 02, 2007

NEL GIORNO DI ABETE CALCIOPOLI E’MORTA?

EDITORIALE
GIANCARLO PADOVAN
Da Tuttosport di lunedì 2 Aprile 2007

Nel giorno di Giancarlo Abete presidente della Federcalcio non saremo certo noi a guastargli la festa. Sia perché conosciamo la persona e il di­rigente – serio, specchiato, affidabile –, sia perché ne abbiamo apprezzato la carriera di lungo corso fatta, oltre che di competenza, di sobrietà e pa­zienza. Ci sembra però una congiuntura poco fa­vorevole quella che colloca la sua elezione esatta­mente nella fase in cui l’oblio per Calciopoli rag­giunge il punto estremo. Tanto da far dire a chi ne è stato fedele testimone che forse questo scandalo è stato un’allucinazione o un brutto sogno.
E’ il caso del direttore de La Gazzetta dello Sport, Carlo Verdelli, che nell’editoriale di ieri ha rac­contato il proprio sconcerto, dando però anche una stilettata ad Abete. Del quale, tra l’altro, loda il «grande passato, anche un po’ troppo visto che è stato il vice di Carraro, e quindi nella cabina di co­mando mentre ai piani di sotto banchettava la gen­te di Moggiopoli. Non se ne sarà accorto, mettia­mola così».
Sinceramente pensavo a una conclusione un po’ meno morbida e accomodante. Sia perché, condi­videndo ogni passaggio del pezzo di Verdelli, sa­rebbe stata logica. Sia perché sostenere Abete con queste argomentazioni equivale a dire che Rober­to Bettega, vicepresidente della Juve all’epoca del­la Triade, di cui faceva parte assieme a Giraudo e Moggi, oggi potrebbe guidare la società al posto di Cobolli Gigli o essere parte del Consiglio di Am­ministrazione. Ovvio che non possa essere così. Tant’è che Bettega ricopre il ruolo di consulente di mercato, a testimonianza, da una parte, della sua assoluta estraneità allo scandalo e dunque del suo diritto a proseguire un certo lavoro; dall’altra, di una presa di distanza, anche formale, rispetto ad una gerarchia del passato non più riproducibile. Chiedo scusa a Bettega se mi sono permesso l’ac­costamento con Abete (il quale è, e resta, un ga­lantuomo), ma credo che il paragone sia calzante. Nel senso che, pur non avendo colpe, sta pagando la frequentazione di rapporti e di lavoro con Mog­gi e Giraudo, mentre altri, nella medesima situa­zione, vengono premiati addirittura con il massimo incarico istituzionale.
Per come la vedo io – e l’ho scritto su Tuttosport di sabato 24 marzo – la presidenza della Figc ad Abe­te, oltre a dimostrare la povertà formativa del si­stema sportivo italiano a proposito di dirigenti, è un segnale d’allarme perché potrebbe contempla­re il ritorno al vertice anche di Antonio Matarre­se, attuale presidente di Lega (come fu venticin­que anni fa), quale vice-presidente. E, soprattutto, perché prelude al rientro di Franco Carraro – il primo dei grandi graziati dalle sentenze di quarto o quinto grado di Calciopoli – al comando di Euro 2012.
La verità è che a pagare duramente è stata solo la Juve in termine di scudetti sottratti e revocati (2), retrocessione in B, estromissione dalla Champions per due anni, squalifiche dei dirigenti. Realizzata quest’opera di annientamento, tutto (perfino Car­raro) può tornare come prima. E le ragioni – pra­tiche ma non per questo meno condivisibili – si concentrano intorno alla necessità di ottenere l’or­ganizzazione di Euro 2012. Per la quale serve ave­re un presidente e una Federazione funzionanti. Ma siamo sicuri che con gli uomini del vecchio ap­parato l’Italia ci riuscirà meglio che svecchiando, rinnovando e ripulendo com’era stato demagogi­camente promesso?