MARCO BERNARDINI
Da tuttosport di giovedì 19 Aprile 2007
MILANO. Cameriere, riporti in frigo lo champagne! Non era ora. Soltanto acqua minerale, in attesa di un Chianti dei colli senesi, almeno fino a domenica prossima. Si devono accontentare le ugole nerazzurre, anche se ridotte in stato di drammatica arsura da interminabili stagioni di dieta forzata nel corso delle quali l’unico conforto liquido disponibile sapeva di acido. Il cerchio non si è ancora chiuso. Una linea lunga cinque anni che avrebbe dovuto fissare, ieri, l’alfa con l’omega di una commedia perlomeno bizzarra. Era il cinque maggio e proprio nessuno quel giorno, a Roma, avrebbe osato scommettere un solo centesimo sull’eventualità che l’inter potesse uscire dallo stadio Olimpico senza avere tra le mani quello scudetto la cui conquista, alla vigilia, doveva essere letta più che altro come una banale formalità. Ebbene, le immagini di Ronaldo in lacrime, di Cuper mummificato davanti alla panchina e di Massimo Moratti addirittura trasparente in tribuna d’onore rimangono intatte e in replica, icone di un autentico incubo. Come lo scudetto cucito sul petto degli interisti contemporanei, ricevuto in dono dai Tre Saggi (?) della Federcalcio, il quale ha sortito l’effetto che può fare il placebo a un malato terminale, dopo aver causato un attacco di orticaria a tutti coloro per i quali i trionfi sportivi ottenuti a tavolino contano meno di zero. Doveva essere tutto quanto cancellato. Niente. Il cerchio resta aperto e le stelle continuano a divertirsi, selvagge e dispettose, con questa inter che non riesce proprio a festeggiare e, soprattutto, non ce la fa a togliersi di dosso la polvere di antiche maledizioni. Ieri avrebbe potuto riuscirci scollandosi, una volta per tutte, dal requiem contro la Lazio per passare all’inno del tricolore contro la Roma. Sarebbe stato bellissimo e anche esotericamente perfetto. Non fosse altro che per legittimare il peso economico di una festa i cui preparativi, negli ultimi cinque anni, a Massimo Moratti sono costati centocinquanta milioni di euro. Dunque anche soltanto in virtù del gioco delle probabilità i conti sarebbero dovuti tornare, per la pace in terra degli uomini cocciuti come lo stesso Moratti e per le anime sante di personaggi come Prisco e Facchetti il cui respiro mascherato da vento, ieri, faceva sventolare le bandiere del popolo nerazzurro. Ma non è più tempo di regali. La Roma di Spalletti è squadra da tanto di “ chapeau” in grado di saper mostrare quanto e come sia possibile coniugare il termine divertimento con quello di efficacia agonistica, per onorare al meglio il concetto sacrosanto di calcio spettacolo. Sicché non stupisce più di tanto che ciascun giallorosso si presenti in campo, per il tradizionale passeggio tasta- terreno, con infilate nelle orecchie le cuffiette collegate al terminale di un “ MP3”. Sistema divertente e intelligente per evitare il condizionamento e lo stordimento acustico prodotto dal popolo nerazzurro che ha deciso di garantire ai suoi ragazzi l’appoggio di un tifo feroce. Come dire, fatevi pure uscire l’anima dai polmoni ma se volete lo scudetto, venite a prendervelo. Nulla di strano, dunque, se ai buoni propositi dei guastafesta seguono puntuali anche i fatti con preziosità romaniste assortite, la cui sintesi va a coincidere con lo zenit nel preciso istante in cui la palla, calciata da Mancini, si spiaccica contro il palo della porta interista. In quel momento Moratti balza in piedi con dipinta sul viso una smorfia di preoccupazione. Ha manco il tempo di ripiazzarsi sulla poltroncina che Perrotta svergina Julio Cesar. Ammutolisce lo stadio. Sbianca il presidente. E dire che, sia a livello dirigenziale sia sul piano popolare, erano state prese anticipatamente tutte le precauzioni utili per esorcizzare quella sfiga che, quando si tratta di inter, è sempre in punta come un setter da caccia. In mattinata, Letizia Moratti si era presentata per l’inaugurazione della “ Fiera del mobile” indossando un completo in tinta rossonera. A chi la interrogava sulla stranezza di quei colori per lei forse un poco blasfemi, proprio nel giorno in cui la squadra di suo cognato avrebbe potuto vincere lo scudetto, il sindaco rispondeva sorridendo: « Appunto per questo, un pizzico di scaramanzia talvolta non guasta » . Identico registro seguito da Mao, il figlio di Moratti, infilato dentro quella maglia del Celtic che aveva portato tanto bene nel derby, contro il Milan. Di più, addirittura, aveva fatto il segretario della società nerazzurra provvedendo a nascondere un telegramma indirizzato a Roberto Mancini e ai suoi ragazzi con il quale Fabio Cannavaro formulava ai suoi ex compagni “ i migliori auguri e i vivissimi complimenti per uno scudetto meritato”. Mamma mia. Vietato pronunciare la parola scudetto. Non prima della gara, almeno.
E così fa, allineandosi nel rito sciamano, il popolo del Meazza. E’ solo e sempre un potentissimo, ininterrotto, urlo “ inter! inter!”. Manco una minuscola bandiera tricolore a macchiare la selva nerazzurra, per non sfidare le stelle. Dovrebbe bastare. Già, dovrebbe. Materazzi, perlomeno, ci crede e il suo rigore è perfetto, da manuale. Ma la Roma è un’ostrica e neppure Cruz, con le sue cesoie da giardiniere, riesce ad aprirla. Sicché, niente ostriche e quindi niente champagne. Rimetta la bottiglia in frigo, cameriere. Anzi la offra a Totti e a Cassetti che loro, sì, possono festeggiare.
Da tuttosport di giovedì 19 Aprile 2007
MILANO. Cameriere, riporti in frigo lo champagne! Non era ora. Soltanto acqua minerale, in attesa di un Chianti dei colli senesi, almeno fino a domenica prossima. Si devono accontentare le ugole nerazzurre, anche se ridotte in stato di drammatica arsura da interminabili stagioni di dieta forzata nel corso delle quali l’unico conforto liquido disponibile sapeva di acido. Il cerchio non si è ancora chiuso. Una linea lunga cinque anni che avrebbe dovuto fissare, ieri, l’alfa con l’omega di una commedia perlomeno bizzarra. Era il cinque maggio e proprio nessuno quel giorno, a Roma, avrebbe osato scommettere un solo centesimo sull’eventualità che l’inter potesse uscire dallo stadio Olimpico senza avere tra le mani quello scudetto la cui conquista, alla vigilia, doveva essere letta più che altro come una banale formalità. Ebbene, le immagini di Ronaldo in lacrime, di Cuper mummificato davanti alla panchina e di Massimo Moratti addirittura trasparente in tribuna d’onore rimangono intatte e in replica, icone di un autentico incubo. Come lo scudetto cucito sul petto degli interisti contemporanei, ricevuto in dono dai Tre Saggi (?) della Federcalcio, il quale ha sortito l’effetto che può fare il placebo a un malato terminale, dopo aver causato un attacco di orticaria a tutti coloro per i quali i trionfi sportivi ottenuti a tavolino contano meno di zero. Doveva essere tutto quanto cancellato. Niente. Il cerchio resta aperto e le stelle continuano a divertirsi, selvagge e dispettose, con questa inter che non riesce proprio a festeggiare e, soprattutto, non ce la fa a togliersi di dosso la polvere di antiche maledizioni. Ieri avrebbe potuto riuscirci scollandosi, una volta per tutte, dal requiem contro la Lazio per passare all’inno del tricolore contro la Roma. Sarebbe stato bellissimo e anche esotericamente perfetto. Non fosse altro che per legittimare il peso economico di una festa i cui preparativi, negli ultimi cinque anni, a Massimo Moratti sono costati centocinquanta milioni di euro. Dunque anche soltanto in virtù del gioco delle probabilità i conti sarebbero dovuti tornare, per la pace in terra degli uomini cocciuti come lo stesso Moratti e per le anime sante di personaggi come Prisco e Facchetti il cui respiro mascherato da vento, ieri, faceva sventolare le bandiere del popolo nerazzurro. Ma non è più tempo di regali. La Roma di Spalletti è squadra da tanto di “ chapeau” in grado di saper mostrare quanto e come sia possibile coniugare il termine divertimento con quello di efficacia agonistica, per onorare al meglio il concetto sacrosanto di calcio spettacolo. Sicché non stupisce più di tanto che ciascun giallorosso si presenti in campo, per il tradizionale passeggio tasta- terreno, con infilate nelle orecchie le cuffiette collegate al terminale di un “ MP3”. Sistema divertente e intelligente per evitare il condizionamento e lo stordimento acustico prodotto dal popolo nerazzurro che ha deciso di garantire ai suoi ragazzi l’appoggio di un tifo feroce. Come dire, fatevi pure uscire l’anima dai polmoni ma se volete lo scudetto, venite a prendervelo. Nulla di strano, dunque, se ai buoni propositi dei guastafesta seguono puntuali anche i fatti con preziosità romaniste assortite, la cui sintesi va a coincidere con lo zenit nel preciso istante in cui la palla, calciata da Mancini, si spiaccica contro il palo della porta interista. In quel momento Moratti balza in piedi con dipinta sul viso una smorfia di preoccupazione. Ha manco il tempo di ripiazzarsi sulla poltroncina che Perrotta svergina Julio Cesar. Ammutolisce lo stadio. Sbianca il presidente. E dire che, sia a livello dirigenziale sia sul piano popolare, erano state prese anticipatamente tutte le precauzioni utili per esorcizzare quella sfiga che, quando si tratta di inter, è sempre in punta come un setter da caccia. In mattinata, Letizia Moratti si era presentata per l’inaugurazione della “ Fiera del mobile” indossando un completo in tinta rossonera. A chi la interrogava sulla stranezza di quei colori per lei forse un poco blasfemi, proprio nel giorno in cui la squadra di suo cognato avrebbe potuto vincere lo scudetto, il sindaco rispondeva sorridendo: « Appunto per questo, un pizzico di scaramanzia talvolta non guasta » . Identico registro seguito da Mao, il figlio di Moratti, infilato dentro quella maglia del Celtic che aveva portato tanto bene nel derby, contro il Milan. Di più, addirittura, aveva fatto il segretario della società nerazzurra provvedendo a nascondere un telegramma indirizzato a Roberto Mancini e ai suoi ragazzi con il quale Fabio Cannavaro formulava ai suoi ex compagni “ i migliori auguri e i vivissimi complimenti per uno scudetto meritato”. Mamma mia. Vietato pronunciare la parola scudetto. Non prima della gara, almeno.
E così fa, allineandosi nel rito sciamano, il popolo del Meazza. E’ solo e sempre un potentissimo, ininterrotto, urlo “ inter! inter!”. Manco una minuscola bandiera tricolore a macchiare la selva nerazzurra, per non sfidare le stelle. Dovrebbe bastare. Già, dovrebbe. Materazzi, perlomeno, ci crede e il suo rigore è perfetto, da manuale. Ma la Roma è un’ostrica e neppure Cruz, con le sue cesoie da giardiniere, riesce ad aprirla. Sicché, niente ostriche e quindi niente champagne. Rimetta la bottiglia in frigo, cameriere. Anzi la offra a Totti e a Cassetti che loro, sì, possono festeggiare.
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