Friday, April 20, 2007

UN ALTRO 5 MAGGIO NERAZZURRO

MARCO BERNARDINI
Da tuttosport di giovedì 19 Aprile 2007

MILANO. Cameriere, riporti in frigo lo champagne! Non era ora. Soltanto acqua mi­nerale, in attesa di un Chian­ti dei colli senesi, almeno fino a domenica prossima. Si de­vono accontentare le ugole nerazzurre, anche se ridotte in stato di drammatica arsu­ra da interminabili stagioni di dieta forzata nel corso del­le quali l’unico conforto liqui­do disponibile sapeva di aci­do. Il cerchio non si è ancora chiuso. Una linea lunga cin­que anni che avrebbe dovuto fissare, ieri, l’alfa con l’omega di una commedia perlomeno bizzarra. Era il cinque mag­gio e proprio nessuno quel giorno, a Roma, avrebbe osa­to scommettere un solo cen­tesimo sull’eventualità che l’inter potesse uscire dallo stadio Olimpico senza avere tra le mani quello scudetto la cui conquista, alla vigilia, do­veva essere letta più che al­tro come una banale forma­lità. Ebbene, le immagini di Ronaldo in lacrime, di Cu­per mummificato davanti al­la panchina e di Massimo Moratti addirittura traspa­rente in tribuna d’onore ri­mangono intatte e in replica, icone di un autentico incubo. Come lo scudetto cucito sul petto degli interisti contem­poranei, ricevuto in dono dai Tre Saggi (?) della Federcal­cio, il quale ha sortito l’effet­to che può fare il placebo a un malato terminale, dopo aver causato un attacco di ortica­ria a tutti coloro per i quali i trionfi sportivi ottenuti a ta­volino contano meno di zero. Doveva essere tutto quanto cancellato. Niente. Il cerchio resta aperto e le stelle continuano a divertir­si, selvagge e dispettose, con questa inter che non riesce proprio a festeggiare e, so­prattutto, non ce la fa a to­gliersi di dosso la polvere di antiche maledizioni. Ieri avrebbe potuto riuscirci scol­landosi, una volta per tutte, dal requiem contro la Lazio per passare all’inno del trico­lore contro la Roma. Sarebbe stato bellissimo e anche eso­tericamente perfetto. Non fosse altro che per legittima­re il peso economico di una fe­sta i cui preparativi, negli ul­timi cinque anni, a Massimo Moratti sono costati cento­cinquanta milioni di euro. Dunque anche soltanto in virtù del gioco delle probabi­lità i conti sarebbero dovuti tornare, per la pace in terra degli uomini cocciuti come lo stesso Moratti e per le anime sante di personaggi come Prisco e Facchetti il cui re­spiro mascherato da vento, ieri, faceva sventolare le ban­diere del popolo nerazzurro. Ma non è più tempo di re­gali. La Roma di Spalletti è squadra da tanto di “ cha­peau” in grado di saper mo­strare quanto e come sia pos­sibile coniugare il termine di­vertimento con quello di effi­cacia agonistica, per onorare al meglio il concetto sacro­santo di calcio spettacolo. Sic­ché non stupisce più di tanto che ciascun giallorosso si pre­senti in campo, per il tradi­zionale passeggio tasta- terre­no, con infilate nelle orecchie le cuffiette collegate al termi­nale di un “ MP3”. Sistema di­vertente e intelligente per evitare il condizionamento e lo stordimento acustico pro­dotto dal popolo nerazzurro che ha deciso di garantire ai suoi ragazzi l’appoggio di un tifo feroce. Come dire, fatevi pure uscire l’anima dai pol­moni ma se volete lo scudet­to, venite a prendervelo. Nul­la di strano, dunque, se ai buoni propositi dei guastafe­sta seguono puntuali anche i fatti con preziosità romaniste assortite, la cui sintesi va a coincidere con lo zenit nel preciso istante in cui la palla, calciata da Mancini, si spiac­cica contro il palo della porta interista. In quel momento Moratti balza in piedi con di­pinta sul viso una smorfia di preoccupazione. Ha manco il tempo di ripiazzarsi sulla poltroncina che Perrotta svergina Julio Cesar. Am­mutolisce lo stadio. Sbianca il presidente. E dire che, sia a livello di­rigenziale sia sul piano popo­lare, erano state prese antici­patamente tutte le precau­zioni utili per esorcizzare quella sfiga che, quando si tratta di inter, è sempre in punta come un setter da cac­cia. In mattinata, Letizia Mo­ratti si era presentata per l’i­naugurazione della “ Fiera del mobile” indossando un com­pleto in tinta rossonera. A chi la interrogava sulla stranez­za di quei colori per lei forse un poco blasfemi, proprio nel giorno in cui la squadra di suo cognato avrebbe potuto vincere lo scudetto, il sindaco rispondeva sorridendo: « Ap­punto per questo, un pizzico di scaramanzia talvolta non guasta » . Identico registro se­guito da Mao, il figlio di Mo­ratti, infilato dentro quella maglia del Celtic che aveva portato tanto bene nel derby, contro il Milan. Di più, addi­rittura, aveva fatto il segre­tario della società nerazzur­ra provvedendo a nascondere un telegramma indirizzato a Roberto Mancini e ai suoi ra­gazzi con il quale Fabio Can­navaro formulava ai suoi ex compagni “ i migliori auguri e i vivissimi complimenti per uno scudetto meritato”. Mamma mia. Vietato pro­nunciare la parola scudetto. Non prima della gara, alme­no.
E così fa, allineandosi nel rito sciamano, il popolo del Meazza. E’ solo e sempre un potentissimo, ininterrotto, urlo “ inter! inter!”. Manco una minuscola bandiera tri­colore a macchiare la selva nerazzurra, per non sfidare le stelle. Dovrebbe bastare. Già, dovrebbe. Materazzi, perlo­meno, ci crede e il suo rigore è perfetto, da manuale. Ma la Roma è un’ostrica e neppure Cruz, con le sue cesoie da giardiniere, riesce ad aprirla. Sicché, niente ostriche e quindi niente champagne. Ri­metta la bottiglia in frigo, ca­meriere. Anzi la offra a Totti e a Cassetti che loro, sì, pos­sono festeggiare.

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