EDITORIALE *
GIANCARLO PADOVAN
Da Tuttosport di lunedì 23 Aprile 2007
Sono sicuro che, purtroppo, non basterà scrivere che l’Inter ha meritato lo scudetto 2006-2007; ammettere che a vincerlo è stata la squadra migliore e anche la più forte; spiegare che Roberto Mancini, ben lungi dall’aver dimostrato di essere un grande allenatore (ci vogliono anni e un’umiltà pari alle consapevolezze), ha certamente imboccato la strada della concretezza professionale (quella umana, invece, è un dono); dire che, in fondo, questo titolo appartiene a Massimo Moratti almeno quanto a Giacinto Facchetti, l’uomo che all’inter ha tentato – in parte riuscendovi e in parte no – di cambiare mentalità al club.
Non basterà perché – come sappiamo dall’estate scorsa e come dimostra il reciproco risentimento sull’asse Torino-Milano – l’inter vince sul campo il proprio tricolore nella stagione in cui, per la prima volta nella storia dei campionati italiani, non c’è stata la Juve. E’ vero, si tratta di una responsabilità non direttamente riconducibile ai nerazzurri. Tuttavia l’assenza della Juve dalla competizione è un fatto oggettivo e come tale incontestabile. Allo stesso modo è indubitabile che la concorrenza di questa stagione sia stata minore per ampiezza e qualità rispetto almeno all’ultimo quinquennio. Anche diciotto anni fa, all’epoca del remoto trionfo interista firmato da Giovanni Trapattoni, il Napoli, il Milan, la Juve e la Sampdoria formavano un pacchetto di antagoniste assai più nutrito e qualificato della pur apprezzatissima Roma di Spalletti. Quest’anno, poi, le penalizzazioni di Milan, Fiorentina, Lazio, Reggina, Siena hanno contribuito a rendere lo schieramento di partenza così anomalo da apparire tecnicamente contraffatto.
Ma non è solo il contesto la ragione per la quale lo scudetto interista sarà passibile di una valutazione critica non priva di eccezioni e distinguo. C’è anche che, in un rapporto diretto tra causa (retrocessione della Juve in serie B) ed effetto (necessità di svendere i propri campioni indisponibili ad accettare il declassamento), l’inter si è rinforzata in maniera decisiva con gli acquisti di Vieira e Ibrahimovic. Quindi è stato proprio pescando a piene mani dall’avversario più detestato che Moratti ha trovato la spinta per fare il vuoto in una fuga senza inseguitori. Ovvio, nessuno vuol sostenere che quei giocatori Moratti li abbia sottratti indebitamente. Li ha regolarmente pagati e i nuovi dirigenti della Juve sono stati addirittura felici di cederli (chissà perché, ma è così). Anche in questo caso, se da una parte è giusto riconoscere che nell’inter il rendimento di Ibrahimovic mai era stato così alto e costante, dall’altra va ricordato che tanto lo svedese quanto Vieira erano scelte ascrivibili all’acume tecnico e mercantile dello staff dirigenziale juventino, composto dagli odiati Moggi, Giraudo e Bettega.
La contraddizione più palese, però, riguarda la rivendicazione dello scudetto della stagione scorsa, espressa a più riprese e con estrema energia da Mancini e Moratti. Al tecnico, fin dalla settimana passata, ha risposto Vieira dicendo che quello attuale è il suo secondo scudetto italiano (il primo, l’anno scorso, appunto, in bianconero). Invece a Moratti, che negli ultimi giorni ha fatto prevalere un’astiosa e ingiustificata conflittualità sulla legittima soddisfazione per il successo, ha replicato proprio Ibrahimovic, il migliore tra gli interisti. Urlando che, in Italia, di scudetti lui ne ha collezionati tre. Due con la Juve e uno, giusto ieri, in maglia nerazzurra.
* Editoriale non in versione integrale (ndr.)
GIANCARLO PADOVAN
Da Tuttosport di lunedì 23 Aprile 2007
Sono sicuro che, purtroppo, non basterà scrivere che l’Inter ha meritato lo scudetto 2006-2007; ammettere che a vincerlo è stata la squadra migliore e anche la più forte; spiegare che Roberto Mancini, ben lungi dall’aver dimostrato di essere un grande allenatore (ci vogliono anni e un’umiltà pari alle consapevolezze), ha certamente imboccato la strada della concretezza professionale (quella umana, invece, è un dono); dire che, in fondo, questo titolo appartiene a Massimo Moratti almeno quanto a Giacinto Facchetti, l’uomo che all’inter ha tentato – in parte riuscendovi e in parte no – di cambiare mentalità al club.
Non basterà perché – come sappiamo dall’estate scorsa e come dimostra il reciproco risentimento sull’asse Torino-Milano – l’inter vince sul campo il proprio tricolore nella stagione in cui, per la prima volta nella storia dei campionati italiani, non c’è stata la Juve. E’ vero, si tratta di una responsabilità non direttamente riconducibile ai nerazzurri. Tuttavia l’assenza della Juve dalla competizione è un fatto oggettivo e come tale incontestabile. Allo stesso modo è indubitabile che la concorrenza di questa stagione sia stata minore per ampiezza e qualità rispetto almeno all’ultimo quinquennio. Anche diciotto anni fa, all’epoca del remoto trionfo interista firmato da Giovanni Trapattoni, il Napoli, il Milan, la Juve e la Sampdoria formavano un pacchetto di antagoniste assai più nutrito e qualificato della pur apprezzatissima Roma di Spalletti. Quest’anno, poi, le penalizzazioni di Milan, Fiorentina, Lazio, Reggina, Siena hanno contribuito a rendere lo schieramento di partenza così anomalo da apparire tecnicamente contraffatto.
Ma non è solo il contesto la ragione per la quale lo scudetto interista sarà passibile di una valutazione critica non priva di eccezioni e distinguo. C’è anche che, in un rapporto diretto tra causa (retrocessione della Juve in serie B) ed effetto (necessità di svendere i propri campioni indisponibili ad accettare il declassamento), l’inter si è rinforzata in maniera decisiva con gli acquisti di Vieira e Ibrahimovic. Quindi è stato proprio pescando a piene mani dall’avversario più detestato che Moratti ha trovato la spinta per fare il vuoto in una fuga senza inseguitori. Ovvio, nessuno vuol sostenere che quei giocatori Moratti li abbia sottratti indebitamente. Li ha regolarmente pagati e i nuovi dirigenti della Juve sono stati addirittura felici di cederli (chissà perché, ma è così). Anche in questo caso, se da una parte è giusto riconoscere che nell’inter il rendimento di Ibrahimovic mai era stato così alto e costante, dall’altra va ricordato che tanto lo svedese quanto Vieira erano scelte ascrivibili all’acume tecnico e mercantile dello staff dirigenziale juventino, composto dagli odiati Moggi, Giraudo e Bettega.
La contraddizione più palese, però, riguarda la rivendicazione dello scudetto della stagione scorsa, espressa a più riprese e con estrema energia da Mancini e Moratti. Al tecnico, fin dalla settimana passata, ha risposto Vieira dicendo che quello attuale è il suo secondo scudetto italiano (il primo, l’anno scorso, appunto, in bianconero). Invece a Moratti, che negli ultimi giorni ha fatto prevalere un’astiosa e ingiustificata conflittualità sulla legittima soddisfazione per il successo, ha replicato proprio Ibrahimovic, il migliore tra gli interisti. Urlando che, in Italia, di scudetti lui ne ha collezionati tre. Due con la Juve e uno, giusto ieri, in maglia nerazzurra.
* Editoriale non in versione integrale (ndr.)
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