GIANCARLO PADOVAN
Da Tuttosport di sabato 16 Dicembre 2006
Morti per recuperare il pallone, inghiottiti dall’acqua gelida di un invaso artificiale. La fine di Riccardo Neri e Alessio Ferramosca, portiere e centrocampista della Juventus Berretti, scardina con uno sbalzo violentissimo il lessico famigliare di ogni fine allenamento. Quando, sul far della sera, i ragazzi più volonterosi raccolgono il materiale dal terreno di gioco e rincorrono i palloni scagliati oltre la recinzione da qualche compagno esuberante o solo impreciso. Forse non sapremo mai con esattezza come e perché Riccardo e Alessio siano morti. Tuttavia con certezza sappiamo che la trappola tragica è scattata mentre stavano inseguendo l’oggetto più amato della loro passione sportiva, quello a cui avevano consegnato l’infanzia e la loro adolescenza. Amavano il calcio e ai bordi di un campo di calcio sono annegati. Per quanto inspiegabile, inaccettabile, assurda e paradossale appaia questa disgrazia, è chiaro che il destino si è presentato nell’unico posto in cui avrebbe potuto trovare quei due ragazzi.
Come per molti che approdano nei settori giovanili dei club professionistici, la loro vita era fondata su quella perenne rincorsa al pallone. Conosco bene la benedetta/maledetta passione che le fa da motore. Forse perché ancor oggi - in un’età finalmente matura e pur compresso da impegni più urgenti e pressanti - ancora frequento le arene del calcio dilettantistico; forse perché chi vive e racconta lo sport da vicino sa quanto abitui alla pulizia delle conquiste. Però, quando ho appreso la notizia, non mi sono sorpreso che Alessio e Riccardo si attardassero in quello straordinario lavoro di ricerca della palla. Al tatto – uno era un portiere – e ancor di più alla sua vista si è posseduti da un’insana follia. Quando si è in campo, per arrivare su di essa, per arrivare a conquistarla, gestirla, passarla, calciarla, respingerla, si è disposti a tutto. Adare tutto, a prendere tutto. Un vero calciatore - prima ancora di un grande calciatore – non si risparmia mai. Gioca per i compagni, gioca per la squadra, sa cos’è l’aiuto reciproco. Ecco perché dentro al laghetto d’acqua piovana sono finiti in due. Perché in due il pallone è meno difficile da prendere, perché in due la palla ce la si passa.
C’è qualcosa di antico – e di violentemente doloroso – nel gesto che ha determinato la morte di questi due giocatori diciassettenni. Nonostante fossero ormai pronti ad affacciarsi al professionismo, si sono mossi come molti di noi fecero quando i primi calci maldestri destinavano il pallone nel fosso adiacente il campo. Chi non si è mai sporto rischiando di finirci dentro, chi non vi ha affondato le caviglie riemergendo con il pallone tra le mani come fosse il più prezioso dei trofei o la ragione suprema della nostra stessa vita? Alessio e Riccardo erano quelli che siamo stati tutti, solo più bravi e fortunati ad essere finiti nella Juve. E adesso non ha nessuna importanza sapere se sia stata più imprudenza o fatalità. Conta che erano della nostra irragionevole tribù di pedatori sognanti. Ascoltavano solo il suono del pallone, la sua necessaria presenza. Perché, ovunque esso sia, è da quello che ogni volta si ricomincia a giocare.
Come per molti che approdano nei settori giovanili dei club professionistici, la loro vita era fondata su quella perenne rincorsa al pallone. Conosco bene la benedetta/maledetta passione che le fa da motore. Forse perché ancor oggi - in un’età finalmente matura e pur compresso da impegni più urgenti e pressanti - ancora frequento le arene del calcio dilettantistico; forse perché chi vive e racconta lo sport da vicino sa quanto abitui alla pulizia delle conquiste. Però, quando ho appreso la notizia, non mi sono sorpreso che Alessio e Riccardo si attardassero in quello straordinario lavoro di ricerca della palla. Al tatto – uno era un portiere – e ancor di più alla sua vista si è posseduti da un’insana follia. Quando si è in campo, per arrivare su di essa, per arrivare a conquistarla, gestirla, passarla, calciarla, respingerla, si è disposti a tutto. Adare tutto, a prendere tutto. Un vero calciatore - prima ancora di un grande calciatore – non si risparmia mai. Gioca per i compagni, gioca per la squadra, sa cos’è l’aiuto reciproco. Ecco perché dentro al laghetto d’acqua piovana sono finiti in due. Perché in due il pallone è meno difficile da prendere, perché in due la palla ce la si passa.
C’è qualcosa di antico – e di violentemente doloroso – nel gesto che ha determinato la morte di questi due giocatori diciassettenni. Nonostante fossero ormai pronti ad affacciarsi al professionismo, si sono mossi come molti di noi fecero quando i primi calci maldestri destinavano il pallone nel fosso adiacente il campo. Chi non si è mai sporto rischiando di finirci dentro, chi non vi ha affondato le caviglie riemergendo con il pallone tra le mani come fosse il più prezioso dei trofei o la ragione suprema della nostra stessa vita? Alessio e Riccardo erano quelli che siamo stati tutti, solo più bravi e fortunati ad essere finiti nella Juve. E adesso non ha nessuna importanza sapere se sia stata più imprudenza o fatalità. Conta che erano della nostra irragionevole tribù di pedatori sognanti. Ascoltavano solo il suono del pallone, la sua necessaria presenza. Perché, ovunque esso sia, è da quello che ogni volta si ricomincia a giocare.
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