Beppe Di Corrado
Da "Il Foglio Quotidiano" di sabato 16 Giugno 2007
E questa non è da copertina. In fondo Antonio Conte è sempre stato un gregario. Borraccia, per piacere. Corri anche per gli altri, avanti. Allora qui vanno bene quelle frasi così. Inutili e facili: “Dai, s’è lasciato prendere dalla foga del dopo partita”. Qui si parla di uno che quasi si fa fatica a ricordare che sia stato capitano della Juventus, giocatore della Nazionale, amico e poi nemico di Marcello Lippi. Qui si tratta di quello che quando giocava veniva preso in giro per la calvizie incipiente, quello che cercava di nascondere il vuoto centrale tirando indietro i capelli che gli crescevano davanti. Qui basta poco, quindi: trenta secondi e stop, il tempo di dare voce al suo sfogo e poi fottersene tranquilli. Povero Antonio. Un giorno, quando qualcuno avrà trovato la lucidità per parlare del calcio di oggi serenamente, questa storia servirà. Sarà un capitolo. Perché Conte è la vittima di Calciolpoli. La vera. Fregato due volte: prima accusato di essere figlioccio di Moggi, bambolotto usato per curare gli interessi della “Cupola” in Toscana; ora retrocesso per colpa di una partita scandalosa per davvero, figlia di una società e una squadra che hanno voluto far credere a tutti di essere pulite, serie, diverse e invece non hanno garantito regole e giustizia. Antonio ha parlato: “Rispetto tanto i tifosi Juventini, ma ho poco rispetto per la squadra. Retrocedere così fa male, però mi fa capire cose che già sapevo. Nel calcio si parla tanto, tutti sono bravi a parlare, adesso sembrava che i cattivi fossero fuori e che ci fosse un calcio pulito, infatti siamo contenti tutti, evviva questo calcio pulito”.
E’ finita qua. Tutti ciechi. Quest’anno nessuno ha visto le ultime giornate di campionato di A e B. Certo, questa era la stagione della riabilitazione, allora le retrocessioni di Chievo in B e di Arezzo in C sono il male necessario. Sono arrivate con metodi sporchi, con partite fasulle, squadre che pur di perdere cercano di sbagliare rigori e poi dopo averli segnati lasciano il campo agli avversari: quattro occasioni da gol in un minuto, come se giocasse una squadra di Champions contro i Pulcini del Canicattì. Giocatori avversari che s’abbracciano in campo tra loro quando sentono i risultati delle concorrenti. Tutto normale. Pulito, come dice Antonio. Pulito perchè quelli come lui devono comunque pagare: Conte è stato un assistito della Gea, è stato il Capitano della Juventus della Triade, è stato il viceallenatore di Luigi De Canio – pure lui gestito dalla Gea – a Siena, cioè nel feudo di Luciano Moggi; è stato allenatore dell’Arezzo, altro feudo nel quale la Juve ha scaricato i giovani della Primavera per farli crescere. Conte quest’anno è partito da meno sei punti per qualche presunto illecito del club. Ne ha fatti cinquanta sul campo, cioè abbastanza per salvarsi senza problemi e però se ne è trovati 44 in classifica. Retrocesso perché alla penultima giornata, la Juventus del dopo Moggi-Giraudo, quella che non riconosce i suoi scudetti, ha perso a Bari facendo salvare il Bari che poi è andato a Verona e ovviamente ha perso senza giocare. Retrocesso perché all’ultima giornata la stessa Juventus ha perso 3-2 in casa con lo Spezia, mica col Genoa o col Napoli. E però il pazzo sembra lui, Conte. Che si lamenta e gli fanno fare la figura del perdente che non sa perdere. Arriverà il giorno in cui questa storiella piccola diventerà una verità. Bisogna aspettare che il pallone smetta di illudere la gente sulla sua presunta redenzione. Conte ci sarà, chè tanto lui gli scandali degli ultimi anni se li è passati tutti. Prima il doping della Juventus, poi Moggiopoli. S’è trovato sempre dalla parte sbagliata, passato per complice e poi diventato vittima. Forse doveva accettare di andarsene prima: la Juventus voleva mollarlo nel 1998, quando Antonio litigò con Lippi. Avrebbe potuto scegliere: una squadra italiana oppure un campionato straniero. Offerte. Contratti. Certezza di un posto in squadra.
Era arrivato a Torino a Novembre del 1991. Lo aveva scelto Cestmir Vycpalek, lo zio di Zdenek Zeman. Lo aveva seguito tutta la stagione precedente a Lecce. Otto miliardi la quotazione. “Ricordo che il mio problema, quando arrivai alla Juventus, era decidere se dare subito del tu a Tacconi, Baggio e Schillaci, o iniziare con un più rispettoso lei”. Tredici anni, poi. Fino al 2004, perché quando avrebbe potuto andarsene, scelse di restare. La Juventus aveva deciso di chiudere il contratto con Lippi e di prendere Ancelotti: “Con Carlo sono rinato. Anche se non ho giocato titolare sempre, mi ha ridato fiducia e io l’ho ricambiato dando tutto quello che avevo da dare”. A 35 anni s’è fermato. Voleva continuare per un’altra stagione, oppure ripartire da zero, da mister, coi giovani. Ecco, secondo le inchieste della Federcalcio, per Francesco Saverio Borrelli, tre anni fa’ il potere di Moggi e del suo clan era massimo. Allora Conte doveva stare tranquillo: veterano della Juve, con un procuratore della Gea, con un fratello legato alla stessa società. Certo. “Mi dispiace andar via, ma l’offerta della Juventus non la ritengo adeguata. Ho vinto tutto e non posso che esserne contento. Dalla Juve ho ricevuto davvero tanto, ma credo di aver dato qualcosa in più, mettendola sempre al di sopra di qualunque altro pensiero. Lo dimostra il fatto che abbia deciso di sposarmi solo adesso che vado via”. Niente accordo, nessun intrallazzo. Allora se ne sono fregati tutti. Il rapporto Conte-Juventus è stato tirato fuori dopo, quando era utile a disegnare scenari e scatole cinesi, a trovare teste di ponte e uomini d’onore che avrebbero aiutato la rete Moggiana a comandare la baracca del pallone. Su Conte è arrivato il veleno: gli hanno dato del raccomandato, hanno tirato fuori presunte follie delle sue stagioni Torinesi. Pure i capelli: non sono diventati più una battuta ma un pretesto per attacarlo, così come per i suoi modi educati, troppo gentili per un vero uomo. Le voci hanno fondato le radici nella spazzatura e negli affari personali. Bisbiglii, sofffiate, personaggi di basso livello e questioni di piccolo cabotaggio. Tutta roba che in una città non grande, puritana con la puzza sotto al naso erano già venute fuori. Antonio il chiaccherato, che poi era pure un terroncello: facile obbiettivo. Facile facile. Se n’è andato, ha preso il patentino, ha trovato una squadra. E però era quella sbagliata. Siena. Altre parole: “Alla Juventus chiesi di poter allenare la Primavera. Non ho avuto questa possibilità e di questo sono rimasto piuttosto male. Per molti anni il mio procuratore è stato Alessandro Moggi, figlio di Luciano, e con me si è sempre comportato benissimo. Sono stati gli altri procuratori, quelli che ho avuto prima di lui, che semmai non si sono comportati benissimo. Qullo che mi è capitato è comunque la dimostrazione che l’essere assistito dalla Gea non mi ha mai garantito canali privilegiati rispetto agli altri”. Non è bastato. Schiacciarlo quest’anno è stato uno sfizio del quale qualcuno non ha voluto privarsi.
Eppure non ha fatto niente, lui. E’ stato uno che ha parlato quasi sempre quando è stato interpellato. E’ stato uno che ha detto cose quanto meno pensate. “I politici dovrebbero fare di più ma anche gli atleti, anche noi giocatori, troppo spesso privilegiati. Oppure maltrattati, giudicati con disprezzo: la nostra colpa è non ribellarsi, non voler dimostrare che possiamo essere migliori. Le diverse discipline non dovrebbero vivere separate, quasi nemiche. Non conta solo il gusto della massa o la direzione in cui viaggiano i miliardi”. Un calciatore senza calcio in testa, ecco il professor Conte. Saranno stati i sette anni di navigazione tra i libri? “No, il giocatore medio è una persona valida anche se non ha studiato. E potrebbe dire qualcosa di importante, se glielo chiedeste. Invece ci fate parlare solo di partite di avversari di polemiche. Io vorrei andare in TV e discutere d’altro, senza sentirmi un milionario in mutande. Non esiste più il giocatore incapace di pagare una bolletta o di farsi sistemare il contatore del gas, non ci serve il tutore. Penso che la cultura non sia solo un diploma, una laurea, ma un diverso modo di pensare a noi stessi, di imporre un’immagine più aderente alla realtà”. Avrebbe fatto bene il sindacalista alla Albertini, Conte. Pronto a parlare e pronto a non tirarsi indietro. Fino a quando ha giocato, Antonio non ha mai fatto finta di niente: non si è risparmiato le critiche ai compagni e agli avversari, ai governanti del pallone e ai politici di professione. Nel 1998 attaccò da solo il governo: la Juventus doveva andare a giocare a Instanbul nel pieno della crisi diplomatica Italia-Turchia per il caso Ocalan. Il presidente del Consiglio era Massimo D’Alema. Aveva detto che avrebbe seguito la squadra per stemperare le tensioni, poi si tirò indietro. Conte lo fece notare: “Adesso non c’è più nessuno; siamo soli e ci dispiace molto. I poitici sappiano che sull’aereo c’è ancora posto e che la gita sul Bosforo è gratis. Anzi, paghiamo pure il pranzo. Come in quei concorsi a premio: trascorri una giornata con il tuo beniamino”. S’è segnato anche altro: le dichiarazioni di Luciano Gaucci, per esempio. Ogni volta che l’ex proprietario del Perugia ha parlato, Antonio ha reagito così: “Gaucci? Ma no, lui dovrebbe stare solo zitto. Su qualunque cosa”. Spesso ha rimproverato anche i compagni. Una volta Roberto Baggio e Gianluca Vialli insieme: “Questa vittoria è una risposta a chi ha parlato di organico insufficiente o di carenze di personalità”. Un’altra volta i giovincelli come Del Piero e Grabbi che a neppure vent’anni sembravano così predestinati da sentirsi titolari fissi: “Io non mi sento inferiore a nessuno. Ma io ci ho messo degli anni per essere qualcuno. Ho lavorato duro”. Un’altra volta in nazionale, contro quelli che non avevano voglia di essere convocati: “Io verrei a Coverciano anche per tenere le borracce”.
E’ stato uno giusto, Conte: non simpatico, ma neppure odioso, come qualcuno ha voluto far credere. Uno che almeno ha avuto le palle di continuare a studiare anche quando era pieno di soldi. Nel 1995 da vicecampione del mondo, ha preso il diploma Isef. Ci ha messo sette anni, neppure tanti. Pochi anzi, per dire che un giocatore non pensa solo al pallone, per mettere qualcosa oltre la pagella della gazzetta. Per riuscire a spiccicare una parola che vada al di là di una partita, un ingaggio, uno scudetto. “Lo so che per la gente siamo così, è un luogo comune tremendo eppure il calciatore medio è cambiato, si informa, partecipa alla vita normale. Ma non c’è verso, non riusciamo a spiegarlo. La fregatura del calcio è che ti toglie altre voglie. Arrivi presto al successo, ai soldi, hai una vita intensa, magari ti sposi giovanissimo e allora dedichi alla famiglia tutto il tempo che non trascorri in ritiro. Così, addio libri. Io invece ho avuto fortuna e tenacia, non mi sono fatto passare la voglia dell’Isef. Mi piacerebbe insegnare lo sport ai ragazzi, avere degli allievi. Anche mio fratello Gianluca è professore di Educazione fisica, i nostri genitori sono molto soddisfatti di noi. E il sud senza impianti, certo. Io vengo dalla Puglia e so che le scuole di Torino e Milano sono favorite. So anche che nella Costituzione non compare mai la parola sport. E che il nostro modello socio-culturale è sbilanciato verso il professionismo, il business. Lo squilibrio delle risorse esiste. C’è il problema dei concorsi, delle graduatorie ma chissà, magari ci provo. Sarebbe un modo per tornare una persona comune, che lavorando può anche avere uno stipendio basso. Ma perché in Italia l’insegnamento è sottopagato?”.
Aveva 26 anni il professor Conte. Aveva discusso una tesi in psicologia dello sport: “La personalità dell’allenatore”. Se l’è riletta dopo, se la rilegge ancora. “E’ stato un lavoro interessante, ho provato a raccontare come dovrebbe essere l’allenatore ideale. Prima di tutto un ottimo psicologo, uno che sa ascoltare e che ti spiega le ragioni di una scelta. Purtroppo, e parlo in generale, si curano poco i rapporti umani. A me in fondo è andata bene, da tutti i miei maestri ho appreso qualcosa. Fascetti mi ha trasmesso la fiducia nei giovani, Mazzone il carattere e se non stavi attento ci litigavi, però è uno vero. Trapattoni l’umanità e la disponibilità: quante ore ha trascorso a insegnare calcio dopo gli allenamenti, quando gli altri di solito dicono basta. Lippi mi ha dato la carica di chi non è mai appagato e vuole sempre di più, oltre a una notevole preparazione tattica. Infine Sacchi, cioè lo scienziato del lavoro quotidiano”. E però un limite l’aveva trovato. Uguale per tutti. Per Fascetti, Mazzone, Trapattoni, Lippi e Sacchi: “Si dialoga troppo poco e quasi sempre a senso unico. Mi piacerebbe che gli allenatori non parlassero con noi solo di calcio, che meritassero il loro carisma non con l’autorità del ruolo e del diritto acquisito”. Quando è diventato allenatore lui dice d’averci provato. Dice che è diverso, che insomma è un po’ come è Ancelotti, che il giorno della discussione della tesi non aveva ancora incontrato. Con Carletto, Antonio s’è trovato bene. Lui parlava, lui l’ha convinto che poteva riprendersi dopo due infortuni che avrebbero consigliato di starsene tranquilli tra panchina e tribuna. Conte ha continuato, con la stessa andatura di sempre: un po’ ingobbita, un po’ cavallesca. Non è mai stato particolarmente bello da vedere. Utile, però. Perché era uno di quei centrocampisti che si sanno inserire, che partono da dietro, che sanno infilarsi saltare un uomo e calciare. Poi era bravo di testa. Era un Perrotta in grado di segnare di più e spesso meglio. Come ad Arnhem nell’Europeo dell 2000, giocato a 31 anni. Rovesciata contro la Turchia. Poi un altro infortunio, contro la Romania, la fine dell’avventura con la Nazionale. Ha chiuso praticamente allo stadio Re Baldovino, che poi sarebbe il vecchio Heysel. Coincidenza amara per uno Juventino. Prima di giocare su quel campo la prima volta non riuscì a non dire di essere impressionato: “Mercoledì giocheremo in quello che fu l’Heysel, lo stadio dell’incubo. Sono Juventino dall’infanzia e quel giorno rimane scolpito nella mia memoria. Giocheremo lì e io dedicherò una preghiera alle persone scomparse all’Heysel”. Gli è rimasta questa frase. E’ rimasta anche per qualcun altro: quelli che l’anno dopo si ritrovarono all’inizio del ritiro della Juventus a Chatillon a chiedere alla dirigenza della Juve di non provare a vendere Conte. Lo avevano proposto anche per il dopo Deschamps, adesso. Giovane, bianconero, amico di molti giocatori. Amico di Pessotto, al quale è stato il primo a raccontare della vittoria ai Mondiali dell’Italia. Amico di Del Piero. Forse avrebbe potuto convincere Trezeguet a rimanere. La società ha pensato che sarebbe stato meglio evitare: troppo facile accostare Antonio alla vecchia gestione. Troppo difficile avere in casa un allenatore che sta dalla parte della squadra. L’anno scartato, prima di tradirlo.
Da "Il Foglio Quotidiano" di sabato 16 Giugno 2007
E' la vittima di calciopoli. La vera. Fregato due volte: prima accusato di essere il figlioccio di Moggi, poi retrocesso per una partita scandalosa
E questa non è da copertina. In fondo Antonio Conte è sempre stato un gregario. Borraccia, per piacere. Corri anche per gli altri, avanti. Allora qui vanno bene quelle frasi così. Inutili e facili: “Dai, s’è lasciato prendere dalla foga del dopo partita”. Qui si parla di uno che quasi si fa fatica a ricordare che sia stato capitano della Juventus, giocatore della Nazionale, amico e poi nemico di Marcello Lippi. Qui si tratta di quello che quando giocava veniva preso in giro per la calvizie incipiente, quello che cercava di nascondere il vuoto centrale tirando indietro i capelli che gli crescevano davanti. Qui basta poco, quindi: trenta secondi e stop, il tempo di dare voce al suo sfogo e poi fottersene tranquilli. Povero Antonio. Un giorno, quando qualcuno avrà trovato la lucidità per parlare del calcio di oggi serenamente, questa storia servirà. Sarà un capitolo. Perché Conte è la vittima di Calciolpoli. La vera. Fregato due volte: prima accusato di essere figlioccio di Moggi, bambolotto usato per curare gli interessi della “Cupola” in Toscana; ora retrocesso per colpa di una partita scandalosa per davvero, figlia di una società e una squadra che hanno voluto far credere a tutti di essere pulite, serie, diverse e invece non hanno garantito regole e giustizia. Antonio ha parlato: “Rispetto tanto i tifosi Juventini, ma ho poco rispetto per la squadra. Retrocedere così fa male, però mi fa capire cose che già sapevo. Nel calcio si parla tanto, tutti sono bravi a parlare, adesso sembrava che i cattivi fossero fuori e che ci fosse un calcio pulito, infatti siamo contenti tutti, evviva questo calcio pulito”.
E’ finita qua. Tutti ciechi. Quest’anno nessuno ha visto le ultime giornate di campionato di A e B. Certo, questa era la stagione della riabilitazione, allora le retrocessioni di Chievo in B e di Arezzo in C sono il male necessario. Sono arrivate con metodi sporchi, con partite fasulle, squadre che pur di perdere cercano di sbagliare rigori e poi dopo averli segnati lasciano il campo agli avversari: quattro occasioni da gol in un minuto, come se giocasse una squadra di Champions contro i Pulcini del Canicattì. Giocatori avversari che s’abbracciano in campo tra loro quando sentono i risultati delle concorrenti. Tutto normale. Pulito, come dice Antonio. Pulito perchè quelli come lui devono comunque pagare: Conte è stato un assistito della Gea, è stato il Capitano della Juventus della Triade, è stato il viceallenatore di Luigi De Canio – pure lui gestito dalla Gea – a Siena, cioè nel feudo di Luciano Moggi; è stato allenatore dell’Arezzo, altro feudo nel quale la Juve ha scaricato i giovani della Primavera per farli crescere. Conte quest’anno è partito da meno sei punti per qualche presunto illecito del club. Ne ha fatti cinquanta sul campo, cioè abbastanza per salvarsi senza problemi e però se ne è trovati 44 in classifica. Retrocesso perché alla penultima giornata, la Juventus del dopo Moggi-Giraudo, quella che non riconosce i suoi scudetti, ha perso a Bari facendo salvare il Bari che poi è andato a Verona e ovviamente ha perso senza giocare. Retrocesso perché all’ultima giornata la stessa Juventus ha perso 3-2 in casa con lo Spezia, mica col Genoa o col Napoli. E però il pazzo sembra lui, Conte. Che si lamenta e gli fanno fare la figura del perdente che non sa perdere. Arriverà il giorno in cui questa storiella piccola diventerà una verità. Bisogna aspettare che il pallone smetta di illudere la gente sulla sua presunta redenzione. Conte ci sarà, chè tanto lui gli scandali degli ultimi anni se li è passati tutti. Prima il doping della Juventus, poi Moggiopoli. S’è trovato sempre dalla parte sbagliata, passato per complice e poi diventato vittima. Forse doveva accettare di andarsene prima: la Juventus voleva mollarlo nel 1998, quando Antonio litigò con Lippi. Avrebbe potuto scegliere: una squadra italiana oppure un campionato straniero. Offerte. Contratti. Certezza di un posto in squadra.
Era arrivato a Torino a Novembre del 1991. Lo aveva scelto Cestmir Vycpalek, lo zio di Zdenek Zeman. Lo aveva seguito tutta la stagione precedente a Lecce. Otto miliardi la quotazione. “Ricordo che il mio problema, quando arrivai alla Juventus, era decidere se dare subito del tu a Tacconi, Baggio e Schillaci, o iniziare con un più rispettoso lei”. Tredici anni, poi. Fino al 2004, perché quando avrebbe potuto andarsene, scelse di restare. La Juventus aveva deciso di chiudere il contratto con Lippi e di prendere Ancelotti: “Con Carlo sono rinato. Anche se non ho giocato titolare sempre, mi ha ridato fiducia e io l’ho ricambiato dando tutto quello che avevo da dare”. A 35 anni s’è fermato. Voleva continuare per un’altra stagione, oppure ripartire da zero, da mister, coi giovani. Ecco, secondo le inchieste della Federcalcio, per Francesco Saverio Borrelli, tre anni fa’ il potere di Moggi e del suo clan era massimo. Allora Conte doveva stare tranquillo: veterano della Juve, con un procuratore della Gea, con un fratello legato alla stessa società. Certo. “Mi dispiace andar via, ma l’offerta della Juventus non la ritengo adeguata. Ho vinto tutto e non posso che esserne contento. Dalla Juve ho ricevuto davvero tanto, ma credo di aver dato qualcosa in più, mettendola sempre al di sopra di qualunque altro pensiero. Lo dimostra il fatto che abbia deciso di sposarmi solo adesso che vado via”. Niente accordo, nessun intrallazzo. Allora se ne sono fregati tutti. Il rapporto Conte-Juventus è stato tirato fuori dopo, quando era utile a disegnare scenari e scatole cinesi, a trovare teste di ponte e uomini d’onore che avrebbero aiutato la rete Moggiana a comandare la baracca del pallone. Su Conte è arrivato il veleno: gli hanno dato del raccomandato, hanno tirato fuori presunte follie delle sue stagioni Torinesi. Pure i capelli: non sono diventati più una battuta ma un pretesto per attacarlo, così come per i suoi modi educati, troppo gentili per un vero uomo. Le voci hanno fondato le radici nella spazzatura e negli affari personali. Bisbiglii, sofffiate, personaggi di basso livello e questioni di piccolo cabotaggio. Tutta roba che in una città non grande, puritana con la puzza sotto al naso erano già venute fuori. Antonio il chiaccherato, che poi era pure un terroncello: facile obbiettivo. Facile facile. Se n’è andato, ha preso il patentino, ha trovato una squadra. E però era quella sbagliata. Siena. Altre parole: “Alla Juventus chiesi di poter allenare la Primavera. Non ho avuto questa possibilità e di questo sono rimasto piuttosto male. Per molti anni il mio procuratore è stato Alessandro Moggi, figlio di Luciano, e con me si è sempre comportato benissimo. Sono stati gli altri procuratori, quelli che ho avuto prima di lui, che semmai non si sono comportati benissimo. Qullo che mi è capitato è comunque la dimostrazione che l’essere assistito dalla Gea non mi ha mai garantito canali privilegiati rispetto agli altri”. Non è bastato. Schiacciarlo quest’anno è stato uno sfizio del quale qualcuno non ha voluto privarsi.
Eppure non ha fatto niente, lui. E’ stato uno che ha parlato quasi sempre quando è stato interpellato. E’ stato uno che ha detto cose quanto meno pensate. “I politici dovrebbero fare di più ma anche gli atleti, anche noi giocatori, troppo spesso privilegiati. Oppure maltrattati, giudicati con disprezzo: la nostra colpa è non ribellarsi, non voler dimostrare che possiamo essere migliori. Le diverse discipline non dovrebbero vivere separate, quasi nemiche. Non conta solo il gusto della massa o la direzione in cui viaggiano i miliardi”. Un calciatore senza calcio in testa, ecco il professor Conte. Saranno stati i sette anni di navigazione tra i libri? “No, il giocatore medio è una persona valida anche se non ha studiato. E potrebbe dire qualcosa di importante, se glielo chiedeste. Invece ci fate parlare solo di partite di avversari di polemiche. Io vorrei andare in TV e discutere d’altro, senza sentirmi un milionario in mutande. Non esiste più il giocatore incapace di pagare una bolletta o di farsi sistemare il contatore del gas, non ci serve il tutore. Penso che la cultura non sia solo un diploma, una laurea, ma un diverso modo di pensare a noi stessi, di imporre un’immagine più aderente alla realtà”. Avrebbe fatto bene il sindacalista alla Albertini, Conte. Pronto a parlare e pronto a non tirarsi indietro. Fino a quando ha giocato, Antonio non ha mai fatto finta di niente: non si è risparmiato le critiche ai compagni e agli avversari, ai governanti del pallone e ai politici di professione. Nel 1998 attaccò da solo il governo: la Juventus doveva andare a giocare a Instanbul nel pieno della crisi diplomatica Italia-Turchia per il caso Ocalan. Il presidente del Consiglio era Massimo D’Alema. Aveva detto che avrebbe seguito la squadra per stemperare le tensioni, poi si tirò indietro. Conte lo fece notare: “Adesso non c’è più nessuno; siamo soli e ci dispiace molto. I poitici sappiano che sull’aereo c’è ancora posto e che la gita sul Bosforo è gratis. Anzi, paghiamo pure il pranzo. Come in quei concorsi a premio: trascorri una giornata con il tuo beniamino”. S’è segnato anche altro: le dichiarazioni di Luciano Gaucci, per esempio. Ogni volta che l’ex proprietario del Perugia ha parlato, Antonio ha reagito così: “Gaucci? Ma no, lui dovrebbe stare solo zitto. Su qualunque cosa”. Spesso ha rimproverato anche i compagni. Una volta Roberto Baggio e Gianluca Vialli insieme: “Questa vittoria è una risposta a chi ha parlato di organico insufficiente o di carenze di personalità”. Un’altra volta i giovincelli come Del Piero e Grabbi che a neppure vent’anni sembravano così predestinati da sentirsi titolari fissi: “Io non mi sento inferiore a nessuno. Ma io ci ho messo degli anni per essere qualcuno. Ho lavorato duro”. Un’altra volta in nazionale, contro quelli che non avevano voglia di essere convocati: “Io verrei a Coverciano anche per tenere le borracce”.
E’ stato uno giusto, Conte: non simpatico, ma neppure odioso, come qualcuno ha voluto far credere. Uno che almeno ha avuto le palle di continuare a studiare anche quando era pieno di soldi. Nel 1995 da vicecampione del mondo, ha preso il diploma Isef. Ci ha messo sette anni, neppure tanti. Pochi anzi, per dire che un giocatore non pensa solo al pallone, per mettere qualcosa oltre la pagella della gazzetta. Per riuscire a spiccicare una parola che vada al di là di una partita, un ingaggio, uno scudetto. “Lo so che per la gente siamo così, è un luogo comune tremendo eppure il calciatore medio è cambiato, si informa, partecipa alla vita normale. Ma non c’è verso, non riusciamo a spiegarlo. La fregatura del calcio è che ti toglie altre voglie. Arrivi presto al successo, ai soldi, hai una vita intensa, magari ti sposi giovanissimo e allora dedichi alla famiglia tutto il tempo che non trascorri in ritiro. Così, addio libri. Io invece ho avuto fortuna e tenacia, non mi sono fatto passare la voglia dell’Isef. Mi piacerebbe insegnare lo sport ai ragazzi, avere degli allievi. Anche mio fratello Gianluca è professore di Educazione fisica, i nostri genitori sono molto soddisfatti di noi. E il sud senza impianti, certo. Io vengo dalla Puglia e so che le scuole di Torino e Milano sono favorite. So anche che nella Costituzione non compare mai la parola sport. E che il nostro modello socio-culturale è sbilanciato verso il professionismo, il business. Lo squilibrio delle risorse esiste. C’è il problema dei concorsi, delle graduatorie ma chissà, magari ci provo. Sarebbe un modo per tornare una persona comune, che lavorando può anche avere uno stipendio basso. Ma perché in Italia l’insegnamento è sottopagato?”.
Aveva 26 anni il professor Conte. Aveva discusso una tesi in psicologia dello sport: “La personalità dell’allenatore”. Se l’è riletta dopo, se la rilegge ancora. “E’ stato un lavoro interessante, ho provato a raccontare come dovrebbe essere l’allenatore ideale. Prima di tutto un ottimo psicologo, uno che sa ascoltare e che ti spiega le ragioni di una scelta. Purtroppo, e parlo in generale, si curano poco i rapporti umani. A me in fondo è andata bene, da tutti i miei maestri ho appreso qualcosa. Fascetti mi ha trasmesso la fiducia nei giovani, Mazzone il carattere e se non stavi attento ci litigavi, però è uno vero. Trapattoni l’umanità e la disponibilità: quante ore ha trascorso a insegnare calcio dopo gli allenamenti, quando gli altri di solito dicono basta. Lippi mi ha dato la carica di chi non è mai appagato e vuole sempre di più, oltre a una notevole preparazione tattica. Infine Sacchi, cioè lo scienziato del lavoro quotidiano”. E però un limite l’aveva trovato. Uguale per tutti. Per Fascetti, Mazzone, Trapattoni, Lippi e Sacchi: “Si dialoga troppo poco e quasi sempre a senso unico. Mi piacerebbe che gli allenatori non parlassero con noi solo di calcio, che meritassero il loro carisma non con l’autorità del ruolo e del diritto acquisito”. Quando è diventato allenatore lui dice d’averci provato. Dice che è diverso, che insomma è un po’ come è Ancelotti, che il giorno della discussione della tesi non aveva ancora incontrato. Con Carletto, Antonio s’è trovato bene. Lui parlava, lui l’ha convinto che poteva riprendersi dopo due infortuni che avrebbero consigliato di starsene tranquilli tra panchina e tribuna. Conte ha continuato, con la stessa andatura di sempre: un po’ ingobbita, un po’ cavallesca. Non è mai stato particolarmente bello da vedere. Utile, però. Perché era uno di quei centrocampisti che si sanno inserire, che partono da dietro, che sanno infilarsi saltare un uomo e calciare. Poi era bravo di testa. Era un Perrotta in grado di segnare di più e spesso meglio. Come ad Arnhem nell’Europeo dell 2000, giocato a 31 anni. Rovesciata contro la Turchia. Poi un altro infortunio, contro la Romania, la fine dell’avventura con la Nazionale. Ha chiuso praticamente allo stadio Re Baldovino, che poi sarebbe il vecchio Heysel. Coincidenza amara per uno Juventino. Prima di giocare su quel campo la prima volta non riuscì a non dire di essere impressionato: “Mercoledì giocheremo in quello che fu l’Heysel, lo stadio dell’incubo. Sono Juventino dall’infanzia e quel giorno rimane scolpito nella mia memoria. Giocheremo lì e io dedicherò una preghiera alle persone scomparse all’Heysel”. Gli è rimasta questa frase. E’ rimasta anche per qualcun altro: quelli che l’anno dopo si ritrovarono all’inizio del ritiro della Juventus a Chatillon a chiedere alla dirigenza della Juve di non provare a vendere Conte. Lo avevano proposto anche per il dopo Deschamps, adesso. Giovane, bianconero, amico di molti giocatori. Amico di Pessotto, al quale è stato il primo a raccontare della vittoria ai Mondiali dell’Italia. Amico di Del Piero. Forse avrebbe potuto convincere Trezeguet a rimanere. La società ha pensato che sarebbe stato meglio evitare: troppo facile accostare Antonio alla vecchia gestione. Troppo difficile avere in casa un allenatore che sta dalla parte della squadra. L’anno scartato, prima di tradirlo.
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